Attenti alla meditazione trascendentale non cristiana

02.10.2016 21:09

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"Il gesuita zen e i suoi mille allievi".  Intervista a Padre Francesco Piras s.J. dal quotidiano "Unione Sarda".


Un viaggio affascinante alla ricerca della consapevolezza: incontro con Padre Francesco Piras, nel ’82 ha fondato la prima scuola di meditazione. Ride con uno sguardo da bambino discolo, questo gesuita di 87 anni che ama il paradosso e rifugge dalle risposte facili. Colto e arguto come sanno essere i membri della Compagnia di Gesù, deve essere anche ben forte, se alla sua età continua a viaggiare ogni settimana da Cagliari ad Alghero, da Alghero a Sassari e di nuovo a Cagliari per incontrare le centinaia di persone che da anni seguono i suoi corsi di meditazione trascendentale. Nell’82, quando cominciò in città, i suoi allievi non erano più di una quarantina, e tutti studenti universitari che si ritrovavano con lui, una volta alla settimana, nella sacrestia barocca della chiesa di San Michele. Vent’anni dopo, quegli studenti ci sono ancora, col doppio degli anni, la sacrestia ha lasciato il posto alla sala di via Ospedale 4, i quaranta sono diventati più di mille. Donne e uomini di ogni ceto e cultura, cattolici, protestanti, buddisti, agnostici, atei che vedono in lui un importante punto di riferimento spirituale. Seduto in un saletta dell’alloggio dei Gesuiti di San Michele, il vecchio gesuita ha l’aria di una persona che conosce bene il mondo ma non lo prende troppo sul serio. «Calderon de la Barca diceva che la vita è un sogno. La meditazione ci sveglia da un sogno che si chiama realtà, ci sgombra la mente rendendoci consapevoli». 

Nato a Villanova Monteleone nel febbraio del 1915, Francesco Piras ha 19 anni quando, dopo la maturità all’Azuni di Sassari, sceglie di diventare gesuita. Due anni di noviziato a Gozzano, in Piemonte, tre anni di filosofia e psicologia a Gallarate, quattro anni di lettere e filosofia all’Università, quattro anni di studi teologici, e infine un anno di spiritualità a Salamanca. Un corso di studi “matto e disperatissimo” comune alla maggioranza dei seguaci di Sant’Ignazio di Loyola. 

Per vent’anni è il padre spirituale degli allievi della scuola dei Gesuiti di Torino, tra i suoi ragazzi c’è Piero Fassino. «Di cultura materialista, ma ricco di umanità». Da Torino a Termini Imerese, dove la Fiat ha una casa-albergo per i dipendenti. «L’ho diretta per otto anni, un’esperienza straordinaria. Qualcuno si chiederà che cosa ci facesse un gesuita, con la Fiat. Avevano bisogno di una figura spirituale che seguisse gli operai e i dirigenti, molti dei quali miei ex alunni. Erano anni di grande conflittualità, io fungevo un po’ da cuscinetto. Ho sempre rispettato tutti e tutti mi hanno rispettato. Poi la Fiat costruì le case e l’albergo fu chiuso». 

È allora che torna nella sua terra, a Cagliari, nella casa dei Gesuiti dove attuamente vive con i suoi quattordici confratelli. Subito decide di aprire in città una scuola di meditazione che prescinda dalla religione, indu, zen, o cristiana. L’alsaziano padre Lassalle, promotore della spiritualità zen, è il suo maestro. «Il primo a capire che se si voleva convertire il Giappone bisognava calarsi nella mentalità del suo popolo». 

Oggi parlare di Oriente è di moda. Ma quando lei cominciò il terreno doveva essere assai meno fertile.
«Vent’anni fa fuori dalla Sardegna c’erano solo due centri tenuti da cristiani e uno da buddisti italiani. Tutti volevano fare proseliti. A Cagliari non c’era niente, ho intuito che si dovesse fare qualcosa. Ho cercato di presentare la meditazione come un fatto autentico, senza chiedere nulla se non il benessere fisico e spirituale della persona». 

Come fu accolta la sua idea dagli altri gesuiti?
«Con una diffidenza che con l’andare degli anni è diventata sempre meno forte. Ora i miei superiori sono felicissimi di questa iniziativa».

Anche se chi la segue non è necessariamente cattolico, o praticante...
«Lo scopo non è quello, ma la naturale conseguenza è che quando si sviluppa la parte spirituale si diventa più seri. Parlo della serietà di una vita cristiana o laica improntata a principi etici forti». 

Perché tante persone si avvicinano a questa pratica orientale? 
«Per curiosità, per ridurre lo stress, per avere una pace interiore. In questa nostra società sopraffatta dal materialismo e dalla violenza forse abbiamo il desiderio di fermarci».

Eppure, tra i cinquecento cagliaritani che ogni anno si iscrivono al primo corso, c’è qualcuno che si ritira...
«La meditazione fa paura perché ti fa entrare in te stesso e ti rende libero». 

La libertà non è mai gratuita, significa soffrire, scontrarsi.
«Sì, ma bisogna affrontare la realtà come è, non come ce la immaginiamo. Aspettative, delusioni, questo ci fa ammalare».

Vent’anni di meditazione come hanno inciso sul maestro?
«Sono più riflessivo, più concentrato, e anche più sano». 

L’ideale di saggezza?
«Affrontare la vita, sapendo che le cose sono così. Se uno ha una fede sa che la vita è guidata da Dio».

E chi non ha questa fede?
«Sa che in una relazione umana giusta si può trovare la pace».

Preferisce un tiepido o un ateo?
«Un ateo coerente, dotato di una forte coscienza. È la strada per avvicinarsi a Dio». 

Ama il tuo prossimo come te stesso significa anche amare noi stessi. Come ci possiamo amare davvero?
«Amare se stessi significa migliorarsi, rispettarsi, e perdonarsi».

Il senso di colpa fa tanti danni...
«Io penso che bisogna imparare ad accettare gli sbagli. Guardandoli in faccia, ci miglioriamo senza sforzo». 

In che cosa le persone dimostrano stupidità?
«Viviamo troppo concentrati sui nostri problemi, dovremmo stare più appresso agli altri». 

Che cos’è la tolleranza?
«Una parola che non mi piace. La tolleranza ti fa sentire superiore, l’apertura invece ti fa capire che il bello è anche altrove, non appartiene solo a noi». 

Questo riguarda anche il rapporto tra religioni e culture diverse: non crede che troppo spesso si identifichi l’Islam con il fondamentalismo e il terrorismo? 
«Niente di più sbagliato, il Corano parla di amore».

Si può accettare la morte anche se non si crede in Dio e in un’altra vita? 
«Epicuro diceva che non bisogna avere paura della morte, perché quando c’è lei non ci siamo noi, e quando ci siamo noi non c’è lei. La verità è che Dio ci aiuta a vivere ed è anche padre. Dio è amore, e chi ama - dice Matteo - è salvo». 

Nella sala di via Ospedale martedì alle 20,30 una lezione illustrativa per i nuovi iscritti:

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji, ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. 
«È ricolma. Non ce n’entra più!». 
«Come questa tazza», disse Nan-in, «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?». 

È una delle storie Zen che padre Piras racconta ai suoi allievi, all’inizio dei corsi, per far capire loro l’importanza di avere una mente sgombra da pensieri e giudizi. Entrare dentro se stessi significa fare il vuoto. E si può farlo - utilizzando le giuste tecniche - anche se si è circondati da cinquecento persone, tutte con gli occhi chiusi, il respiro regolare, la schiena ben dritta, le mani abbandonate sul grembo. In questa dimensione del silenzio, corpo e anima si incontrano in perfetta armonia, la persona diventa più consapevole di sé, fa suo, col tempo, un diverso modo di vivere, basato sul “lasciare che le cose accadano” orientale e non sull’interventismo occidentale. 

Apprendere l’arte della meditazione non è facile, occorre serietà ed esercizio. E soprattutto una grande dose di pazienza. Padre Piras lo raccomanda sempre ai suoi “allievi”, lo ripeterà anche dopodomani (martedì 15) alle 20,30 ai nuovi partecipanti che seguiranno la lezione illustrativa. Tutti le persone interessate a seguire il primo corso devono presentarsi in via Ospedale 4 entro le 20,15. Un quarto d’ora più tardi, si chiuderanno le porte e nessuno potrà entrare.

Filmato  :  Che cosa c è di sbagliato nella nostra cultura di  Alan Watts

Brani tratti da  : La Via della Liberazione  

di Alan Watts  - Chislehurst6 gennaio 1915 – 16 novembre 1973 è stato un filosofo inglese.

Noto per i suoi vasti studi di filosofia orientale (buddhismo Zentaoismo,induismo), 

pubblicò nel 1957 The Way of Zen, la sua opera più significativa.

La pratica della meditazione non è quel che comunemente si intende per pratica, nel senso di ripetizione intesa a preparare a una qualche prova futura. Può sembrare strano e illogico dire che la meditazione sotto forma di yoga, dhyana o za-zen, come è in uso presso gli induisti e i buddhisti è una pratica priva di scopo nel futuro immediato o lontano, poiché è l'arte dell'essere completamente centrati nel qui e ora. "Io non sono addormentato e non c'è nessun posto in cui voglia andare".
Viviamo in una cultura totalmente stregata dall'illusione del tempo, in cui il cosiddetto momento presente è sentito come qualcosa di infinitesimale fra un passato potentemente condizionante e un futuro la cui importanza è assoluta. Non abbiamo un presente. La nostra coscienza è quasi totalmente occupata dal ricordo e dall'aspettativa. Non ci rendiamo conto che non c'è mai stata, non c è e non ci sarà mai altra esperienza che quella del presente.
Siamo perciò privi di contatto con la realtà. Confondiamo il mondo di cui si parla, che si descrive e si misura col mondo qual è in realtà. Siamo sotto l'incantesimo di quegli utili strumenti che sono i nomi, i numeri, i simboli, i segni, i concetti e le idee. Ecco dunque che la meditazione è l'arte di sospendere temporaneamente il pensiero verbale e simbolico, un po' come un pubblico beneducato interrompe le conversazioni quando sta per iniziare un concerto.
Limitatevi a stare seduti, chiudere gli occhi e ascoltare tutti i suoni che possono essere nell'aria, senza provare a identificarli o a definirli. Ascoltate come ascoltereste la musica. Se vi accorgete che il dialogo mentale continua, non cercate di interromperlo con la volontà. Limitatevi a lasciare la lingua rilassata, abbandonata e comoda nella mascella inferiore, e ascoltate i vostri pensieri come ascoltereste gli uccelli che cinguettano fuori dalla finestra, puro rumore nella vostra testa: i pensieri alla fine si placheranno da soli, come uno stagno agitato e fangoso si calma e torna limpido se non lo si disturba.
Ancora, prendete coscienza del vostro respiro e lasciate che i vostri polmoni funzionino al ritmo loro congeniale. E per un po' restate semplicemente ad ascoltare e sentire il respiro. Ma, se possibile, non chiamatelo così. Limitatevi a vivere l'evento non verbale. Si può obiettare che questa non è meditazione 'spirituale' ma semplice attenzione al mondo fisico: si dovrebbe però comprendere che spirituale e fisico sono soltanto idee, concetti filosofici, e che la realtà di cui ora avete coscienza non è un'idea. Di più, non c'è in voi un io che ne è cosciente. Anche quella era solo un'idea. Potete udirvi in ascolto?
E adesso cominciate a lasciar 'cadere' il vostro respiro all'esterno, lentamente e comodamente. Non sforzate né tendete i polmoni, ma lasciate che il respiro esca allo stesso modo di quando vi abbandonate in un letto accogliente. Lasciatelo semplicemente andare, andare, e andare. Non appena c'è un minimo sforzo, fatelo semplicemente rientrare come un riflesso, senza pressioni o strappi. Non pensate all'orologio. Non pensate a contare. Mantenete semplicemente questo stato tanto a lungo quanto dura il senso di beatitudine che dà.
Usando il respiro in questa maniera, scoprite come produrre energia senza forza. Ad esempio, una delle tecniche (in sanscrito upaya) usate per quietare la mente pensante e il suo meccanico chiacchiericcio è nota come mantra - che è il salmodiare un suono in quanto suono, piuttosto che per il significato. Per cui cominciate a emettere un'unica nota sull'onda dell'espirazione, all'altezza che vi viene più facile. Gli induisti e i buddhisti usano per questa pratica sillabe come OM, AUM (cioè HUNG), e i cristiani possono preferire AMEN O ALLELUIA, i mussulmani ALLAH e gli ebrei ADONAI: sostanzialmente non fa differenza, dal momento che ciò che conta è solo e unicamente il suono. Come i Buddhisti Zen potreste usare semplicemente la sillaba Mu (~). Scegliere questa sillaba, e lasciate che la vostra coscienza sprofondi giù, giù, giù dentro il suono fino a quando non provate più nessun senso di sforzo.
Soprattutto, non puntate a un risultato, a un improvviso cambiamento di coscienza o al satori: l'essenza della pratica della meditazione è tutta nel concentrarsi su ciò che È, non su ciò che dovrebbe o potrebbe essere. Il problema è: non usare la forza per svuotare la mente, o per concentrarsi su un punto di luce o altro, anche se, fatto senza accanimento, queste cose possono essere meravigliose. Quanto dovrebbe durare tutto ciò? La mia idea, forse non ortodossa, è che lo si possa far durare fintanto che non c'è sensazione di sforzo - e può voler dire arrivare a trenta o quaranta minuti a seduta; dopo di che vorrete tornare allo stato di normale riposo e distrazione.  (...)

Estratto da la "  Saggezza del dubbio  " in pdf di Alan Watts  

(...) Potremmo citare intere pagine della letteratura spirituale d'ogni tempo e luogo per mostrare come la vita eterna sia stata intesa in questo senso. Basterà questa tratta da Eckart: L'Attimo in cui Dio fece il primo uomo e l'Attimo in cui l'ultimo uomo scomparirà, e l'Attimo in cui sto parlando sono un attimo solo in Dio, in cui c'è soltanto l'Adesso. Guarda! Chi vive nella luce di Dio non è conscio né del tempo passato né del tempo a venire, ma è conscio di un'unica eternità... Perciò non ricava alcunché di nuovo dagli eventi futuri né dalla sorte, perché vive nell'Attimo presente, che è infallibilmente 'ammantato di nuova freschezza'. Se in ogni istante moriamo e veniamo alla vita, le pretese previsioni scientifiche su quanto accadrà dopo la morte hanno ben poca importanza. Tutto il lustro di ciò sta nel fatto di non sapere. Le idee della sopravvivenza e dell'annullamento si fondano egualmente sul passato, su ricordi della veglia e del sonno e, nelle loro varie forme, le nozioni di eterna continuità e di nulla eterno sono entrambe prive di senso. Non occorre molta immaginazione per rendersi conto che l'eternità è un incubo mostruoso, per cui tra il cielo e l'inferno, così come li si intende di solito, c'è poco da scegliere. Il desiderio di continuare per sempre può sembrare attraente soltanto se pensiamo a un tempo indefinito anziché infinito. Un conto è avere tutto il tempo che si vuole, un altro, del tutto diverso, avere un tempo senza fine. Nella continuità, nel perpetuo non c'è gioia. La desideriamo solo perché il presente è vuoto. La persona che cerca di mangiare denaro è sempre affamata. Quando qualcuno dice: "Il tempo dovrebbe fermarsi ora!", è in preda al panico perché non ha ancora avuto niente da mangiare e vuole sempre più tempo per continuare a mangiare denaro, nella speranza di trovare soddisfazione dietro l'angolo. Non vogliamo realmente la continuità, vogliamo piuttosto un'esperienza presente di piena felicità. L'idea di desiderare che un'esperienza del genere continui indefinitamente è il risultato del fatto d'essere coscienti di sé nell'esperienza stessa, e quindi di averne una consapevolezza incompleta. Sino a quando c'è il sentimento di un Io che ha quest'esperienza, l'istante non è tutto. Si realizza la vita eterna quando è scomparsa l'ultima traccia di differenza tra l' 'Io' e l' 'ora', quando c'è solo l' 'ora' e nient'altro. Per contro, l'inferno o 'dannazione eterna' non è l'eternità di un tempo che continua per sempre, ma quella di un cerchio ininterrotto, la continuità e frustrazione del girare a vuoto perseguendo qualcosa che non può mai essere raggiunto. L'inferno è la vanità, la perenne impossibilità, dell'egotismo, dell'autocoscienza, della padronanza di sé. È cercare di vedersi gli occhi, udirsi le orecchie, baciarsi le labbra. Ma vedere che la vita è completa in ogni istante — intera, indivisa, sempre nuova — è capire il senso della dottrina secondo la quale nella vita eterna Dio, l'indefinibile questo, è tutto, la Causa Ultima o il Fine per cui ogni cosa esiste. Poiché il futuro è perennemente irraggiungibile e, come la carota appesa, sta sempre davanti all'asino, la realizzazione degli scopi divini non risiede nel futuro. Va trovata nel presente, non con un atto di rassegnazione alla realtà impassibile, ma vedendo che non c'è nessuno per rassegnarsi. Questo è infatti il significato di quel principio religioso universale e più volte riaffermato secondo cui, per conoscere Dio, l'uomo deve abbandonare se stesso. È un principio che ci è familiare, come ogni luogo comune, eppure non c'è nulla di più difficile da mettere in pratica e nulla di più completamente frainteso. Come può il sé, che è egoista, abbandonare se stesso? Non certo, dicono i teologi, con le sue sole facoltà, ma con il dono della grazia divina, il potere che dà all'uomo la capacità di raggiungere ciò che è al di là delle sue forze. Ma questa grazia è offerta a tutti o è riservata a pochi eletti i quali, quando la ricevono, non hanno altra scelta se non quella di abbandonarvisi? Alcuni dicono che essa è data a tutti, ma che c'è chi ne accetta l'aiuto e chi lo rifiuta. Altri dicono che è data solo all'eletto prescelto, ma sostengono anch'essi, per lo più, che l'individuo ha la facoltà di prenderla o lasciarla. Questo però non risolve affatto il problema. Sostituisce al problema di mantenere o abbandonare il sé il problema di accettare o rifiutare la grazia divina, e i due problemi sono identici. La risposta recondita che al problema dà la religione cristiana sta nell'idea che l'uomo può soltanto abbandonarsi 'in Cristo'. Ma poiché 'Cristo' rappresenta la realtà, non c'è un sé separato da abbandonare. Rinunciare all' Io è un falso problema. 'Cristo' è la presa di coscienza che non c'è un Io separato. "Da solo non faccio nulla... Io e il Padre siamo una cosa sola... Prima che Abramo fosse, io sono". Se un problema esiste, è di vedere che in quest'attimo non hai alcun Io da abbandonare. Sei assolutamente libero di farlo in ogni istante e non c'è niente che ti fermi. Questa è la nostra libertà. Tuttavia non siamo liberi di migliorarci, di abbandonarci, di offrirci alla grazia, perché una siffatta disposizione mentale alla scissione non è che la negazione e il rinvio della nostra libertà. È come cercare di mangiarsi la bocca invece del pane. È forse necessario sottolineare l'enorme differenza che esiste fra il rendersi conto che "Io e il Padre siamo una cosa sola" e lo stato mentale di chi, come si suol dire, 'si crede Dio'? Se continuando a pensare che esista un Io isolato ci identifichiamo con Dio, diventiamo gli insopportabili egomaniaci i quali pensano di riuscire a ottenere l'impossibile, a padroneggiare l'esperienza, a percorrere ogni circolo vizioso sino a conclusioni soddisfacenti. I am the master of my fate; I am the captain of my soull 14 Quando il serpente si mangia la coda, si monta la testa. Tutt'altra cosa è constatare che il nostro 'destino' siamo noi, che non c'è chi domina e chi è dominato, chi impera e chi si arrende. Dobbiamo forse insistere anche sul fatto che questa perdita dell' Io in Dio non è un miasma mistico in cui si obliterino i 'valori della personalità'? L' Io non è mai stato, non è e non sarà mai una parte della personalità umana. In esso non c'è niente di unico, o 'diverso' o interessante. Al contrario, più gli esseri umani lo perseguono, più diventano uniformi, privi d'interesse, impersonali. Più rapido è il movimento circolare delle cose, più precoce è la loro trasformazione in immagini confuse, indistinguibili. È chiaro che le sole persone interessanti sono quelle interessate, e per essere completamente interessati occorre essersi dimenticati dell' Io. Possiamo allora vedere che i princìpi fondamentali della filosofia, della religione e della metafisica si possono intendere in due modi completamente diversi. Li possiamo vedere come simboli della psiche indivisa, come espressioni della verità che in ogni istante vita ed esperienza sono un tutto perfetto. 'Dio' non è una definizione di questo stato, ma un'esclamazione su esso. Di solito però essi sono usati come tentativi di porsi fuori di se stessi e dell'universo per afferrarli e dominarli. È un processo circolare, per quanto complesso e tortuoso. Poiché gli uomini hanno continuato per secoli a girare in tondo, i poteri della tecnologia non servono che ad accelerare il processo sino a un punto di insostenibile tensione. La civiltà sta per andare in frantumi sotto la spinta di una vera e propria forza centrifuga. In questa situazione il tipo di religione autocosciente al quale siamo da tempo abituati non è una cura, ma una parte della malattia. Se il potere del pensiero scientifico si è indebolito non ce ne dobbiamo rammaricare, perché il 'Dio' al quale esso avrebbe potuto portarci non era la Realtà ignota che il nome esprime, ma solo una proiezione di noi stessi — un Io cosmico", disincarnato, che spadroneggia sull'universo intero. La vera gloria della scienza non sta tanto nel fatto che essa definisce e classifica, registra e prevede, quanto piuttosto nella sua osservazione dei fatti, nel suo desiderio di conoscerli, quali che essi possano poi risultare. Per quanto possa confondere i fatti con le convenzioni, e la realtà con le divisioni arbitrarie, in questa apertura e sincerità intellettuale essa presenta qualche somiglianza con la religione intesa in questo suo diverso e più profondo significato. Quanto più lo scienziato è grande, tanto più è colpito dalla propria ignoranza della realtà, tanto più si rende conto che le proprie leggi ed etichette, descrizioni e definizioni, sono prodotti del proprio pensiero. Lo aiutano a usare il mondo ai fini dei propri intendimenti più che a capirlo e a spiegarlo.(...)