Audiovisivo - Liberazione in vista della Salvezza - Esodo

08.05.2014 11:22

Filmato Esodo 1 - Oppressione degli ebrei. Nascita e crescita di Mosè. 

Filmato Esodo 2 - Fuga di Mosè in Median. Vocazione di Mosè al Sinai. 

Filmato Esodo 3 - Missione di Mosè. Mosè con il potere dei segni.

 Filmato Esodo 4  - Ritorno in Egitto. Mosè ed Aronne dal Faraone. 

  Filmato Esodo 5   - Le piaghe sull'Egitto. Morte primogeniti. La Pasqua.

Filmato Esodo 6 - L'uscita dall'Egitto. La festa degli azzimi. Verso il Mar Rosso. Il Dio d'Israele divide il mare per il passaggio dei suoi figli. 

Filmato Esodo 7 - L'acqua del mare ritorna, come prima, coprendo carri e cavalieri egiziani. Verso il deserto di Sur. Prendete e mangiate quaglie e manna "pane del Signore". Il Sabato giorno di riposo.  

Filmato Esodo 8 - Incontro di Ietro con Mosè. Istituzione dei giudici. Arrivo al Sinai. La legge dell'Alleanza. Il Decalogo. 

Filmato Esodo 9 - Il vitello d'oro. Le minacce di Dio. La partenza.

Filmato Esodo 10 - Il sangue dell'Alleanza. Arca dell'Alleanza.

Filmato Esodo 11 - Richiesta di una nuova guida. Moriranno nel deserto, come nomadi,  solo chi ha più di 20 anni ed ha dubitato di Dio. Quaranta anni dopo. L'acqua scaturisce dalla. roccia. 

Filmato Esodo 12 - Morte di Aronne. Il bastone da Mosè a Giosuè. Mosè vede da lontano "Canaan - la terra promessa". Da Gerico a Sic nella "terra promessa" dei figli d'Israele.

Se ogni generazione vive il proprio «Esodo» sul modello dell’esodo dall’Egitto, ogni generazione trova il culmine del suo cammino nell’allearsi con Dio e, nell’entrare in possesso della «terra promessa».  La risposta odierna del popolo al dono della terra promessa è la fede, vale a dire, il riconoscimento che la sua storia è animata da Dio! Credere in Dio è raccontare in uno «sguardo di fede» la propria storia. Ebbene, soltanto al termine è possibile decidersi a vivere «alleati di Dio». Siamo anche noi in grado di esporre una storia nella quale il primato di Dio e, la sua vittoria sulle forze di morte ci ha acconsentito a entrare in una «terra promessa»? Davvero Dio ha guidato i nostri passi ed è, oggi, la nostra guida «attraverso Gesù»? Divenire «credenti» è essere convinti della presenza animatrice di Dio, in Gesù Cristo e, per suo dono, in mezzo a noi! Comprendere e assimilare questa presenza, tuttavia, non è facile.Occorre, necessariamente, esercitarsi nell’osservare le vicende della vita, in uno «sguardo di fede», provando e, riprovando a raccontarle tessendole con i fatti della Sacra Scrittura e, in particolare (per noi cristiani) della vita di Gesù Cristo. Guardando con attenzione questo «reticolo» possiamo allora accettare che Dio anima la nostra piccola e, grande storia, dove s’intrecciano bene e male, accoglienza e rifiuto del suo amore.Così la nostra fede cresce, contemplando nel bene e nel male, il corso degli eventi. Infine, nella preghiera narriamo quel che il Signore ha fatto nel passato, soprattutto, per noi cristiani in Gesù Cristo, per illuminare il presente e, poter riconoscere che, anche oggi, il suo amore per noi che è eterno! Dio si ricorda di chi è fedele e, lo libera dalle forze del male, come ha liberato Gesù dalla morte. Noi siamo gli sventurati e gli umiliati di cui Dio, sempre, si ricorda.  Dio ci ama e, ci vuole bene di un amore appassionato, paragonabile oggigiorno a una travolgente storia d’amore di due giovani fidanzati di oggi! Quest’ultima potrebbe essere un’immagine efficace, per rappresentare il tipo di amore che il Padre nutre nei confronti di ciascuno. Quella tra Dio «e il suo popolo» è una storia d’amore appassionante e, altre volte potrebbe essere altresì amara, ma, sempre carica di speranza, perché lo sposo non si arrende e, continuamente s’ingegna, per iniziare da capo il rapporto amoroso, fondando il futuro sul perdono disinteressato.Non vi sono altre «vie d’uscita» per il «popolo di Dio» che, il perdono gratuito di Dio stesso. Soltanto il perdono può convincere che Dio ama, di un amore sconfinato.Il perdono, tuttavia, non è il fine, ma, soltanto un mezzo per convincere gli esseri viventi a «mettere mano» a un «futuro nuovo». Dio perdona, come anche Gesù Cristo lo testimonierà in modo definitivo, perché l’uomo abbia le energie e, il coraggio di dar inizio al Regno di Dio. Noi cristiani con l’intervento di Gesù affermiamo che siamo perdonati, per riprendere il nostro posto nella casa del Padre, la grande dimora del regno di Dio. E’ sostanzialmente in questa prospettiva che dobbiamo accogliere il perdono di Dio, evitando quella sorta di formalità di chi intendere, soltanto, collocare una pietra sul passato, per essere liberato dall’affanno psichico, esteriore, del peccato.E’ consolante per un «credente» ripercorrere le grandi tappe della «storia della salvezza». In essa egli riesce a riconoscere la presenza di Dio liberatore, come lo è stato nel grande Esodo dall’Egitto.Nella «storia della salvezza» il credente vede manifestarsi la mano provvidenziale di Dio che introduce il suo popolo nella «terra promessa» (segno della fedeltà di Dio alle sue «promesse»). In essa il fedele sente agire e, parlare sovrani, profeti, santi.Il credente scorge, soprattutto, come la «lettura della storia sacra» sia fonte di consolazione oggi per noi, perché, comunque, essa prelude al Messia Salvatore, nel quale si sono realizzate in seguito tutte le profezie. Egli stesso è pertanto è il «Si» di Dio alle «sue promesse» - (cfr. 2° Corinti 1,20).La storia, infatti, dirige verso Cristo, come il suo fine. Anche se noi oggi ci accingiamo a studiare il Libro dell’Esodo, non possiamo trascurare che la storia è «Cristocentrica» (Cristo ne costituisce, infatti, il centro), non potrebbe essere diversamente! Come tutto è stato creato, fin dalle origini, in vista di Cristo. 

Oggi il nostro esodo è uscire da noi stessi per immergerci nell'Amore infinito di Dio e farci carico dei nostri fratelli

"Uscire da noi stessi per andare verso le periferie esistenziali"  dice Papa Francesco. Articolo di Domenico Bonvegna

Quello di uscire per andare incontro alle “periferie esistenziali”, è un’espressione assai cara al Santo Padre FrancescoLe periferie esistenziali non sono solo le periferie materiali delle grandi città ma anche le periferie spirituali di chi si sente stanco o solo a cui va offerto“Gesù misericordioso e ricco di amore”. Occorre entrare nella logica della Croce, che significa, “uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio”.

Infatti proprio in un’udienza del 26 giugno, il Papa, rileva che il problema di oggi è la stanchezza:“Siamo pietre vive o siamo, per così dire, pietre stanche, annoiate, indifferenti? Avete visto quanto è brutto vedere un cristiano stanco, annoiato, indifferente? Un cristiano così non va bene, il cristiano deve essere vivo, gioioso di essere cristiano; deve vivere questa bellezza di far parte del popolo di Dio che è la Chiesa. Ci apriamo noi all’azione dello Spirito Santo per essere parte attiva nelle nostre comunità, o ci chiudiamo in noi stessi, dicendo: ‘ho tante cose da fare, non è compito mio”?

Papa Francesco ci invita a fare come Gesù, “se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo ‘uscire’, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana”. Nell’udienza del 27 marzo 2013, il Papa insiste: “aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena tante parrocchie chiuse! -, dei movimenti, delle associazioni, ed ‘uscire’ incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre!”. Insomma bisogna portare la fede, per evangelizzare.

Papa Francesco non manca di severità verso certi sacerdoti che fanno auto esperienza, partecipano a corsi di aiuto-aiuto, che cercano metodi, passando da un corso all’altro, che minimizzano il potere della grazia. Il Papa afferma che oggi, purtroppo, c’è “un sacerdote che esce poco da sé, che unge poco”, che non “è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiteriale”, pertanto, “invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore”. Oggi abbiamo sacerdoti insoddisfatti, qui sta la radice del problema. Troppi preti, dice papa Francesco, “finiscono per essere tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con ‘l’odore delle pecore’”. Nella serata del Giovedì Santo il Papa è voluto andare personalmente in una delle “periferie” di cui parla spesso. Si è recato nel carcere minorile romano di Casal del Marmo, qui nella commovente cerimonia della lavanda dei piedi, ha spiegato ai ragazzi il suo significato: “Chi è più in alto, dev’essere al servizio degli altri”. Ma ai ragazzi naturalmente ha parlato anche di doveri. La Chiesa aiuta a comprendere e amare il dovere, anche quando è difficile.

Il Papa ci invita alla coerenza, non basta un riconoscimento teorico di essere figli di Dio, e poi non cambia la nostra vita. “Essere cristiani - afferma Papa Francesco - non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; e lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato”.

Ce n’è anche per le religiose in particolare per le suore degli Usa dove si sta vivendo un momento storico particolare tra obbedienza e disobbedienza al Magistero. L’8 maggio 2013 il Papa si rivolge a loro meditando sulla chiamata dello Spirito Santo, in particolare sui voti di obbedienza, povertà e castità. Interessante il passaggio sulla castità, che non passa mai di moda, Papa Francesco però vuole “una castità ‘feconda’, una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre e non ‘zitella’! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata, questa fecondità”.

E qui Papa Francesco ricorda il“danno che arrecano al Popolo di Dio gli uomini e le donne di Chiesa che sono carrieristi, arrampicatori, che ‘usano’ il popolo, la Chiesa, i fratelli e le sorelle - quelli che dovrebbero servire -, come trampolino per i propri interessi e le ambizioni personali. Ma questi fanno un danno grande alla Chiesa”. Il Papa rivolgendosi alle religiose e religiosi ha affermato che non è possibile che “una consacrata e un consacrato non ‘sentano’ con la Chiesa”. Ma subito precisa che il sentire non deve essere solo a parole ma“un’espressione filiale nella fedeltà al Magistero, nella comunione con i Pastori e il Successore di Pietro, Vescovo di Roma, segno visibile dell’unità”.

In pratica, l’annuncio e la testimonianza del Vangelo, per ogni cristiano non è un fatto isolato, ma come ricordava bene Paolo VI, “in forza di un’ispirazione personale, ma in unione con la missione della Chiesa e in nome di essa” (Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, n. 80) E proseguendo affermava che, “E’ una dicotomia assurda pensare di vivere con Gesù senza la Chiesa, di seguire Gesù al di fuori della Chiesa, di amare Gesù senza amare la Chiesa”. In conclusione il Santo Padre evidenziava alle suore che un ordine religioso femminile dovrebbe diventare icona vivente della Madonna e della nostra Santa Madre Chiesa gerarchica”. L’aggettivo “gerarchica”, spiega il professore Introvigne ne “Il segreto di Papa Francesco”, non sembra scelto a caso.

Il 22 maggio 2013 Papa Francesco ci invita a scegliere fra “Pentecoste e Babele”. “Se a Babele ci fu la confusione delle lingue, a Pentecoste, la lingua dello Spirito, la lingua del Vangelo è la lingua della comunione, che invita a superare chiusure e indifferenze, divisioni e contrapposizione”. Tutti dobbiamo scegliere fra Babele e la Pentecoste. Il Papa ci esorta a fare unità intorno a noi a non dividerci con le “chiacchiere, le critiche, le invidie”.

Lo Spirito Santo ci aiuta ad annunciare la “novità del Vangelo di Gesù a tutti, con franchezza, a voce alta, in ogni tempo e in ogni luogo”, anche se le difficoltà non mancano, dobbiamo annunciare sempre con gioia. Unità e coraggio ma anche preghiera. La preghiera non sottrae tempo all’evangelizzazione, “una Chiesa che evangelizza deve partire sempre dalla preghiera, dal chiedere, come gli Apostoli nel Cenacolo…”. “Senza la preghiera il nostro agire diventa vuoto e il nostro annunciare non ha anima, e non è animato dallo spirito”. In queste parole Introvigne vede un riferimento esplicito a un classico della spiritualità, citato da Benedetto XVI durante il suo viaggio a Lourdes: “L’anima di ogni apostolato” del trappista dom Jean-Baptista Chautard.

Rozzano MI, 4 Marzo 2014   S. Cunegonda regina.     Domenico Bonvegna

Meditazione sulla pazienza
di 
José Maria Cabodevillla

I

La vita è milizia, la vita è seminagione, la vita è teatro, la vita è sogno, la vita è compravendita. Sono molte, infatti, le definizioni della vitaumana che si potrebbero trarre, direttamente o indirettamente, dai nostri testi sacri. La vita è pianto, la vita è liturgia, la vita è un fiume che sfocia nel mare. Vivere è tessere una tunica, negoziare col prestito ricevuto, lavorare in una vigna, costruire una casa. Si tratta di un'esistenza così fugace che il nostro vivere equivale all'apparire e allo sparire del fiore di campo; un'esistenza, allo stesso tempo. così lenta e dilatata che i servi hanno il tempo di darsi ad ogni genere di disordine perché il padrone tarda a tornare. Nell'ambito della riflessione cristiana sull'uomo sono molti, ripeto, i modi di definire la nostra vita mortale, capaci tutti di offrire le sfumature più diverse e ricche. Però nessuno tanto comune e tanto fecondo come quello che descrive lo svolgersi della vita umana mediante l'immagine del cammino. Immagine certo presente in tutte le religioni (il dhammapada indù, i muhajjiroun musulmani, il tao come un sentiero), e perfino nel linguaggio più comune, dove la metafora del cammino soggiace a tante etimologie: condotta, metodo, corso e discorso, transito, ingresso, progresso, disgressione, trasgressione... Certamente la american way of life difetta di qualsiasi originalità anche letteraria.

Tuttavia esiste per noi un modo molto particolare di intendere la vita come cammino ed è di intenderla come esodo. Questo generale percorso fra la cattività e il regno ebbe la sua più famosa e plastica rappresentazione storica in quel lungo cammino degli ebrei dall'Egitto fino Canaan; non solo lungo, ma anche umanamente assurdo. Cominciò già in modo assurdo, dirigendosi verso il sud alla ricerca di una meta che si trovava a nord-est; durò quarant'anni il percorso che un viandante ragionevole avrebbe largamente coperto in un paio di settimane. Nella parte superiore della carta geografica, dominando con lo sguardo il labirinto di un simile itinerario, stamperemmo oggi un lemma biblico: «I miei cammini non sono i vostri cammini», dice il Signore (Is 55, 8).

Si tratta—ora come allora—di andare alla Terra Promessa attraverso ciò che Dio vorrà e al passo che egli vorrà: guidati da una colonna di nubi, durante il giorno, e di fuoco durante la notte. Camminando così sempre senza attardarci né affrettarci. Il che diviene quasi una nozione tecnica della virtù della pazienza.

 

II

Succede che l'homo viator si sente doppiamente tentato: o desistere dall'andare, perché il cammino risulta troppo faticoso, o anticipare l'arrivo alla meta perché si presume che il cammino sia troppo lungo. E, malgrado sembri strano, queste due decisioni così diverse sarebbero due forme del peccare contro una medesima virtù, contro la pazienza. In fondo costituiscono due peccati molto simili, non più diversi ti quanto possano esserlo la disperazione e la presunzione quali peccati contro la speranza e certamente molto vincolati ad esse.

Perché la pazienza è una virtù che ha due volti e in essa vi è tanto di attività quanto di passività. Da una parte si oppone a quella fretta e ansietà che abitualmente chiamiamo impazienza, la quale altro non è che un comportamento dettato dall'ignoranza o il rifiuto della nostra condizione di creature soggette al tempo, dall'altra suppone, nel medesimo tempo, una decisa volontà di vincere tutte le difficoltà che potrebbero ritardare il nostro andare di creature incalzate dal tempo.

E’ interessante accentuare per ultimo, questo: come l'uomo paziente non sia un uomo semplicemente passivo. Il suo atteggiamento ha molti punti di contatto con la non-violenza la quale, come ben sappiamo, significa distinguersi da una mera e rassegnata passività; l’opposto consiste nel resistere attivamente, con tutti i mezzi non violenti, a qualsiasi forma di violenza. Per essere non-violento non basta non essere violento, bisogna essere anche temerari e battaglieri. La non-violenza è dire no alla violenza e dirlo con la massima energia.

In questo modo la pazienza oltre che una docile sottomissione al ritmo del tempo, diventa una vittoria positiva sul trascorso e sul logorio del tempo. Non possiamo allungare lo stelo di una pianta per accelerarne la crescita, ma neppure possiamo esimerci dal realizzare per essa tutti i lavori agricoli necessari. Ogni cosa ha il suo tempo. Non perché ci si alzi presto, si fa giorno prima e neanche, è chiaro, annotterà più tardi per permetterci di fare il tratto di cammino che avremmo dovuto già percorrere. Si configura così la pazienza come fedeltà alla volontà divina, ai misteriosi disegni del Dio dell'Esodo, misteriosi anche se nel contempo rivelati giorno per giorno; essa esige da noi tanta attività quanto sottomessa accettazione. Di fronte a questa pazienza, in senso basilare e globale, anche l'impazienza ammette un'ampia definizione, e non più ampia che profonda, che arriva a identificarla col peccato umano in generale.

«Sarete come Dio» (Gn 2,5). Questa promessa del serpente avrà la sua replica più giusta e letterale in quell'altra dell'apostolo San Giovanni: «Saremo come lui» (1Gv 3, 2). Perché era peccaminosa, perché era fallace la prima promessa? Perché prometteva di compiersi prima del tempo, perché proponeva una scorciatoia proibita per arrivare alla meta. La somiglianza dell'uomo con Dio può solo aver luogo all'ora debita e nella debita forma; non per mezzo di una divinizzazione ottenuta dall'uomo, ma mediante una divinizzazione concessa da Dio. Sperare Deum a Deo: bisogna attendere che ciò avvenga e bisogna attenderlo da Dio. Solo alla fine e solo dalle mani divine, la creatura potrà mangiare il frutto dell'albero del Paradiso (Ap 2,7). I nostri padri peccarono per impazienza. Quel peccato originale, quell'impazienza che anticipava l'Apocalisse nel momento prematuro della Genesi, si ripeterà, più o meno, in ognuno dei nostri peccati personali. Perché la volontà non cerca mai il male bensì il bene; il male si basa nel cercare male quel bene, nel voler strappare o con le proprie forze o prima del tempo, nel mangiare un frutto acerbo. Il male è l'impazienza del bene, 1'aborto del bene.

All’inizio delle sue famose Considerazioni, conosciute poi col nome di I quaderni blu in ottavo, Kafka scrisse qualcosa che con piacere avrebbero sottoscritto i Padri greci: «Esistono due peccati capitali nell'uomo, dai quali si originano tutti gli altri: impazienza e indolenza. L'impazienza lo fece scacciare dal Paradiso e non fu per colpa dell'indolenza. Ma forse non esiste che un solo peccato capitale: l’impazienza. A causa dell'impazienza lo scacciarono, a causa dell'impazienza egli non torna».

 

III

Per redimere la pretesa divinizzazione dell'uomo, il Figlio di Dio si fa uomo, cioè si assoggetta a tutte le limitazioni proprie di un'esistenza temporale, sottomesso allo spazio e al tempo. Per compensare l'impazienza dell'uomo egli sarà paziente. «Gesù cresceva» (Lc 2,52): ecco una frase che non solo loda il suo progresso interiore, ma rivela anche la sua totale dipendenza rispetto al tempo.

Anch'egli doveva percorrere un cammino e anche questo sarebbe consistito, lungo tutta la sua esistenza, in un penoso viaggio fino alla terra promessa ai suoi padri: una costante «salita a Gerusalemme» (At 20,18). Vivrà sempre dipendente da quella che il Vangelo chiama la sua ora, tante volte da lui stesso menzionata (Mt 26, 45; Lc l4, 35.41; Gv 12,27; 17,1...). E’ l'ora del passaggio al Padre, l’ultimo tratto del suo cammino, l'ora verso la quale sono orientate tutte le ore e tutti i passi che la precedettero. Poiché ancora non era suonata la sua ora, fugge e si nasconde quando vogliono ucciderlo (Gv 8, 59; l0, 39; 12, 36). Ma una volta giunta quell'ora, «disse ai suoi discepoli: andiamo un'altra volta in Giudea». I discepoli gli risposero: «Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?» (Gv 11, 8). Andò e difatti lo uccisero. Così concluse il suo lungo viaggio, quella salita che aveva iniziato il giorno della sua incarnazione. Salita coraggiosa e intrepida, ininterrotta, contro le dilazioni che ispirerebbe all'uomo indolente e codardo il cammino verso la morte. Salita però lenta, diligente e ponderata contro la fretta e le scorciatoie, che all’uomo impaziente, suggerirebbe un viaggio destinato a porre fine alle sue sofferenze, a concedergli l'accesso ai Paradiso.

La sua ora lo protegge dagli intenti omicidi dei giudei, che non potevano ucciderlo proprio «perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30; 3,20). Però, nel contempo, costituisce per lui un limite, un mandato del Padre a data fissa, una scadenza che non è in suo potere prorogare e nemmeno abbreviare. Non ha alcun potere su quell'ora e nemmeno la conosce (Mc 13, 32). Conoscerla avrebbe significato una forma di potere su di essa, una anticipata notizia relativa agli occulti disegni del Dio dell'Esodo e ciò avrebbe reso psicologicamente impossibile una normale vivibilità umana del tempo. Solo per la generosità e la spontaneità del suo consegnarsi potrà dire: «... io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Gv 10,18). Per quanto concerne la passività e il mistero di quest'immolazione, fu condotto «come un agnello al macello» (Is 53,7). Nei due sensi egli dimostrò pazienza.

Ogni uomo ha la sua ora e davanti ad essa dovrà osservare un comportamento simile: «Abbiate pazienza finché arriverà il giorno del Signore» (Gc 5, 7).

E’ chiaro che l'evocazione di Gesù paziente non è qui un aiuto superfluo o meramente illustrativo. Dopotutto, come qualsiasi altra virtù cristiana, la nostra pazienza si può solo intendere come imitazione e sequela di Cristo. In nessun modo la si potrebbe spiegare senza un espresso riferimento a lui e semplicemente come una condotta imperturbabile e stoica: la condotta di quei pellegrini che nessuna molestia trattiene nel loro cammino e nessuna ansietà sprona. Fra questo genere di pazienza, per quanto perfetta possiamo immaginarla, e la pazienza cristiana ci sarà sempre una differenza essenziale, una distinzione di piani, inclusa un'esigenza di conversione. Anche le persone più pazienti e rassegnate sono obbligate a «nascere di nuovo» (Gv 3,8).

Per quanto riguarda la passività propria della pazienza cristiana, debbo dire che non si tratta precisamente di rassegnazione bensì di abbandono: ci rassegniamo a qualcosa, ci abbandoniamo a qualcuno. Questa nota caratteristica imprescindibile di fiducia nel Padre, suggerisce già un elemento attivo della pazienza: più che sperare in qualcosa speriamo in qualcuno. 

IV

Anche nel campo dell'impazienza, nel senso più ristretto, vi sono notevoli differenze qualitative. Alle volte l'impazienza arriva a trasformarsi in un'insolente sfida contro Dio, la volontà sacrilega di forzare o frastornare i suoi piani. «Coloro che dicono che faccia presto, acceleri pure l'opera sua perché la vediamo» (Is 5, 19). Al contrario, altre volte, quello che sembrerebbe impazienza è solo una modalità più ardente della speranza. Quell’esortazione di Giacomo «pazientare finché arrivi il giorno del Signore», non è enunciata senza una certa impazienza tanto incolpevole che può essere santa, tanto accettabile da Dio che può «affrettare l'arrivo del giorno del Signore» (2 Pt 3,12).

Non è raro che l'impazienza del credente faccia sì che la preghiera tenda a trasformarsi in una supplica ansiosa e assillante: «Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti?» (Ab 1,2). Ha tutta l'apparenza di una provocazione arrogante, altezzosa, ma forse ciò è solo dovuto alla difettosa formulazione di un sentimento molto più sensibile, all'espressione di una necessità più perentoria o, semplicemente una mancanza di conoscenza e di attenzione alle cose spirituali. Infatti colui che così si lamenta della trascuratezza di Dio, ignora che non è Dio che deve ascoltare l'uomo bensì l'uomo che deve ascoltare Dio. Quell'anima, che, come confessa, va da tanto tempo supplicando invano, non sa ancora che la preghiera deve prolungarsi precisamente non fino a quando Dio ascolti le suppliche dell'uomo, ma fino a quando l'uomo scopra e accolga e accetti la volontà di Dio; lungo tutta quella preghiera infruttuosa è stato Dio a dimostrarsi paziente alla sordità di un'anima che a forza di parlare, si rendeva incapace di udire. Infatti la comunione di più volontà alla quale tende ogni vera preghiera deve realizzarsi verso l'alto e non verso il basso. Dio esaudirà tutte le sue promesse, ma non è tenuto a soddisfare tutti i nostri desideriMai dà una pietra a chi gli chiede un pane, ma neanche dà un coltello al bambino che gli chiede un coltelloSe l'uomo, invece di lamentarsi che Dio non lo ascolta, si immergesse nel silenzio per ascoltare Dio, finirebbe per capire e il suo cuore potrebbe così evolvere dal desiderio all'annientamento, dall'esigenza fino al distacco, dall'impazienza fino alla pazienza.

Ogni volta che chiediamo qualcosa, è giusto e necessario, è nostro dovere e nostra salvezza aggiungere - esplicitamente e implicitamente - quelle parole indispensabili: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». In principio probabilmente la nostra volontà non coinciderà con la sua. Perfino Cristo stesso nel Getsemani distingueva fra «ciò che io voglio» e «ciò che tu vuoi» (Mt 26, 39). Ma seppe anteporre la volontà del Padre alla propria.

E avviene che alla fine i nostri desideri più profondi si realizzano e si realizzano largamente; quei desideri che Dio stesso seminò in noi sono stati però soffocati da altri desideri futili o sbagliati, poiché l'impazienza ci fa vivere alla superficie di noi stessi, nell'inganno e nella meschinità dell'immediato. La nostra aspirazione essenziale è di arrivare felicemente alla Terra Promessa, l'inquietudine del cuore ci induce a prendere scorciatoie che sono solo smarrimenti. Ma alla fine, per grazia di Dio, il viaggio si concluderà positivamente, perché i desideri retti si saranno imposti su quelli distorti, i profondi su quelli superficiali, i più ambiziosi sui più meschini. Alla fine avverrà ciò che avvenne con Gesù Cristo stesso, i cui desideri così, secondo la preghiera del Getsemani, furono ampiamente soddisfatti e nel contempo incompiuti; colui che chiedeva che gli fosse risparmiato il calice della morte, morì; ma dopo la morte fu risuscitato.

Dio infatti ascoltò la preghiera del figlio. Ma lo fece «al terzo giorno».

Questi tre giorni sono per tutti noi la parentesi ineluttabile imposta dalla fede, le giornate o le tappe della nostra peregrinazione, il tempo necessario per l'esercizio della pazienza. 

V

Come ho detto prima, c'è nella pazienza un elemento di passività e un altro di attività. Dato che questa virtù ci è tanto necessaria per attendere saldi l'arrivo dello Sposo, quanto per sostenere, da concorrenti, la prova per la quale siamo stati tutti convocati: ecco due immagini sacre che descrivono in modo diverso la vita temporale del cristiano, mettendo nel contempo in rilievo quei due differenti aspetti della pazienza. Spicq ha insistito nel tradurre: «corriamo con pazienza» il noto testo di Eb 12, 1, sostituendo pazienza alla precedente perseveranza. Questa sfumatura risulta molto eloquente se ricordiamo che si tratta di una corsa agli ostacoli e una corsa di fondo, in contrasto con quelli chiamati concorsi di velocità. Quello che importa è superare finalmente la prova (Atti 20, 24), raggiungere la meta (2 Tim 4, 7), e per riuscirvi bisogna evitare l'esaurimento prematuro causato da un'indebita accelerazione.

Ma il contrasto con l'impazienza si fa più evidente in quell'elemento di passività, di obbedienza, di fermezza impavida, che si manifestò nel tragitto dell'Esodo, costringendoci a trattenere ad ogni momento i nostri passi alla presenza e alla direzione della colonna di nubi. Perché, date le speciali caratteristiche di questo nostro viaggio a Canaan, la sua scabrosità, l'incertezza dell'itinerario, la fame e la sete, la frequente ostilità di tanti Etei, Ferusei, Gebusei, si potrebbe dire che l'impazienza assuma quasi sempre l'immagine di una fuga, «una fuga in avanti».

In ogni pretesa anticipazione del futuro, si rivela un vile abbandono del presente, un’evasione dalla dura situazione propria del presente. L'uomo impaziente pretende di sottrarsi alla realtà. Poiché «tutto il vero è brutto», secondo la famosa dichiarazione del Leopardi, propendiamo a rifugiarci anticipatamente nel futuro; non importa che questi non esista ancora: precisamente, essendo illusorio, possiamo modellarlo del tutto a nostro piacimento. L'immaginazione infatti risulta il mezzo più economico per farci evadere da un presente inospitale.

Ma fuggire dove? Questo è il meno. Ogni fuggitivo più che andare aviene da. Succede così che l'impaziente se ne va a Gredos solo per venir via da Madrid; adotta l'ideologia più progressista per liberarsi dalla dottrina tradizionale; oppure diviene conservatore per fuggire l'intemperie e la perplessità proprie di ogni situazione innovatrice; si sposa solo per abbandonare la casa paterna; inizia un nuovo amore solo per meglio dimenticare il suo precedente fallimento. Amore? «Divertitevi, non amate» consiglia il marchese de Sade. Il vero amore comporterebbe un impegno grave, un dovere di fedeltà e consenso: quanto di meno appropriato alla figura di un fuggitivo.

Non ha importanza il luogo dove ci dirigiamo. Solo importa fuggire dal luogo dove ci troviamo. In definitiva la verità è che fuggiamo sempre da noi stessi.

Fuggendo dalla propria interiorità, l'uomo impaziente vive a fior di pelle, scivola sulla superficie delle cose e degli avvenimenti. Invece d'immergersi in un amore serio, moltiplicherà i contatti occasionali, invece di amare si divertirà. Mi viene in mente il pascaliano senso del divertissement, nella sua totale riprovazione. In effetti invece di convertirci e di rivolgerci alla nostra intimità, siamo portati a «divertirci», invece di concentrarci ci disperdiamo. Preferiamo leggere male cinque libri piuttosto che leggerne bene uno solo. 

Preferiamo divagare piuttosto che sintetizzare. Preferiamo parlare piuttosto che pensare. Recitiamo innumerevoli preghiere invece di tacere, quieti e attoniti. Invece di pregare scriviamo un trattato sull'orazione. Preferiamo la velocità e il rumore. E quando il rumore arriva ad opprimerci e ci immergiamo nel silenzio, immediatamente riempiamo questo silenzio di altri rumori, di letture evasive, di vani progetti, di inutili chiamate telefoniche. Pecchiamo d'impazienza.

Anche il lavoro quotidiano può trasformarsi in una forma di evasione. Ricordo che alcuni anni fa, negli Stati Uniti, ebbe larga diffusione un certo disegno che appariva insistentemente negli spots della TV, negli spazi pubblicitari, nelle riviste, sulle scatole di fiammiferi. Raffigurava il noto uomo di affari sempre affaticato, il cittadino impaziente per antonomasia: con una borsa sotto braccio e consultando l'orologio, dalle sue spalle emergeva una grande chiave a forma di farfalla, di quelle che servono per caricare un meccanismo e metterlo in moto. Sotto al disegno un suggerimento: «Vada a riposare in un albergo Sheraton». Se non sapessimo che quella frase pubblicitaria proponeva un genere di riposo assai diverso dalla lettura dei «Pensieri» di Pascal, si direbbe che fosse stata ispirata precisamente da uno di essi: «Ogni disgrazia degli uomini proviene del non essere capaci di starsene seduti in una camera». 

VI

L'uomo impaziente passa la sua vita fuggendo da una città all'altra, da un progetto all'altro, da una chimera all'altra, da un equivoco all'altro. L'importante è non fermarsi. Quando già esisteva la navigazione, egli inventò la circumnavigazione. Odisseo mi chiamo e l'Odissea adoro. La potenza locomotrice è causa e, nel contempo, effetto del movimento. Lo scoiattolo muove la gabbia, la gabbia muove lo scoiattolo. L'uomo impaziente ha inventato il moto continuo, l'inquietudine perpetua e la velocità accelerata senza uniformità.

Sono seduto al margine della strada
il conducente cambia la ruota.
Non mi piace il luogo da dove provengo.
Non mi piace il luogo dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?

(Bertold Brecht)

Perché l'unica cosa cui aneliamo è il movimento come tale, lo spostamento in se stesso, la fuga da un luogo che non ci piace verso un altro che, precisamente perché neanche ci piacerà, ci spingerà subito a continuare la fuga. Per quello ci contraria tanto doverci fermare, non fosse altro che il tempo necessario per cambiare una ruota, tempo durante il quale non abbiamo altro rimedio che porci inevitabilmente, la domanda più ovvia e più terribile: Perché tanta impazienza?

Muoverci, non star quieti, non permettere che quell'immobilità e quel silenzio si prolunghino al punto da renderci conto che la nostra fuga non ha alcun senso, come il correre sopra coperta in direzione opposta a quella che segue il bastimento. Bisogna di nuovo citare Pascal: all'uomo non interessa la preda, ma la caccia; non cerca le cose, ma la ricerca delle cose. Ripeto, l'importante è non fermarsi. E quanto più in fretta andiamo, tanto meglio è. Perché? Siamo come un pattinatore che scivoli a gran velocità, sapendo più o meno oscuramente che lo strato ghiacciato è troppo debole per sopportare il nostro peso, se solo ci pensassimo; il ghiaccio si romperebbe e cadremmo dentro: dentro noi stessi, dentro il nostro proprio vuoto. Ecco come l'impazienza, che è causa di tanto stordimento, è pure effetto della nostra volontà di stordimento, della nostra diserzione: in definitiva, della nostra paura cosciente e incosciente. L'uomo è come un cane con una latta legata alla coda.

E cosa otteniamo fuggendo? Ricordiamo il famoso passo di Sartre: «Fuggo per ignorare, ma non posso ignorare che fuggo; e la fuga dall’angoscia non è altro che un modo di rendersi coscienti dell'angoscia».

La disperazione sarebbe una soluzione ispirata da quella paradossale legge della vertigine, secondo la quale vi è chi si getta giù dalla torre per paura di caderne. Si tratta di una presunzione alla rovescia, l’altra modalità dell'impazienza: invece di precipitarsi verso la meta, invece di ritenerla già acquistata, l'impaziente mette fine immantinente alla sua corsa, negando che esista alcuna meta per lui, avanzando l'argomento che tutti i numeri possibili si trovano alla stessa distanza, dall'infinito, dall'inarrivabile. 

VII

Di fronte a questi due peccati di presunzione e di disperazione, la pazienza dell'Esodo, sempre attiva e passiva, ci si rivela essenzialmente associata alla speranza. (In una stazione ferroviaria del Marocco spagnolo, Gide vide un cartello con la scritta «Sala de espera» e si meravigliò che la lingua castigliana non facesse differenza fra speranza e attesa. Certamente noi conosciamo la differenza fra questi due elementi della speranza, solo che esitiamo a dissociarli).

Secondo san Paolo, la pazienza genera speranza (Rm 5,4). Apparentemente bisognerebbe esprimerlo al contrario, poiché solitamente è la speranza che ci incita ad essere pazienti. Ma la parola dell'apostolo contiene una verità più profonda, e cioè che solo con la pazienza si costruisce la speranza in quanto virtù, come nell'amore matrimoniale, che necessita del tempo e delle difficoltà inerenti al tempo, per essere qualcosa di più di un innamoramento passeggero. Il superamento di queste difficoltà genera la pazienza, rende ardua la nostra speranza, la consolida e la rivaluta fino a giungere a «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18), pratica questa non meno dura, non meno paziente, di quella di credere contro ogni evidenza, di amare il nemico come noi stessi.

Solo la pazienza ci permette di sperare veramente e secondo la volontà di Dio. Poiché sperare significa propriamente continuare a sperare, sperare con ostinazione, sperare quando ogni ragionevole aspettativa si è dissipata e si è fatto buio. Della speranza Bacone soleva dire che è una buona colazione ma una cattiva cena.


Nota biografica

Giuseppe Maria Cabodevilla (1928) si è laureato in Teologia nell’università Gregoriana a Roma. Ha pubblicato più di venti libri fra i quali i più noti: Cristo vivo, Uomo e donna, Discorso del padrenostro, L’impazienza di Giobbe, 12 dicembre, Parole sono amori, Fiera di utopie, La cuccagna della libertà, Il demonio retorico, Lettera della carità, Consolazione della brevità della vita, Le forme di felicità sono otto.