Sermoni di Padre Tognetti

18.10.2016 16:15

Filmati  :   La preghiera del cuore

La potenza della preghiera

Il fondamento è l'umiltà

La risposta cristiana al problema della sofferenza 

L'adorazione

Sermone sulla “La Lettera ai fedeli” di Francesco d’Assisi 

“La Lettera ai fedeli” di Francesco d’Assisi è composta di due capitoli: il primo tratta degli effetti positivi dell’unione con Dio e della necessità della penitenza, il secondo di coloro che non fanno penitenza. Leggendo questo documento salta subito all’occhio come l’elemento portante sia il rapporto, l’essere in rapporto con qualcuno.
Nei confronti di Dio emergono parole che rimandano ad una relazione: figli, sposi, fratelli, madri, spose, fratello, figlio e padre. Non si contempla Dio come un “motore immoto”, come un’entità, essere statico; lo si contempla entrando in rapporto con Lui. Anche l’attrazione straordinaria che Francesco vive nei confronti di Gesù si può sintetizzare con questa parola: “essere-in-rapporto-con”, tanto che l’obbedienza non è obbedienza ad una legge ma al Vangelo. Il Vangelo non è un codice di diritto canonico, è la vita di Gesù, quindi l’obbedienza è sequela, relazione ad una persona, con la quale si ha un incontro così stretto da arrivare alla dichiarazione “io vivo per Lui”.
Francesco usa tutti i termini possibili, in modo esuberante: vive la relazione con il Padre eterno in quanto “figlio”, con il Figlio in quanto anima “sposa”, grazie allo Spirito Santo. Non solo: anima sposa ma anche suo “fratello” e addirittura “madre” del Verbo, perché partecipa alla maternità di Maria.
Questo viene detto delle persone dedite alla penitenza, ai laici… Al tempo la “sposa di Cristo” era per definizione la consacrata, la monaca, ma qui si supera il concetto di vita religiosa: io sono “sposo”, “fratello”, “madre” in quanto la mia anima è unita al Verbo di Dio con un legame realmente sponsale, tant’è che in Paradiso non si è più sposati con una creatura che si era scelta in terra – è scritto nel Vangelo. Se lo Spirito di Dio mi lega in una maniera così intima al Verbo Incarnato, viene da chiedersi: “ma allora io chi sono veramente? Che cosa sono?” Sentiamo Francesco: «Ginocchioni, con faccia a terra e mani levate al cielo in fervore di Spirito, Francesco diceva: “Chi sei tu o dolcissimo Iddio mio, chi sono io vilissimo verme, inutile servo Tuo?”. Queste parole le ripeteva spesso e non diceva nessuna altra cosa». Ecco perché Francesco appare come l’anima innamorata del Verbo di Dio. Oggi si parla sempre dei valori, ma i valori sono impersonali, Cristo invece è personale. Affermava paradossalmente Dostoevskij: “Se dovessi scegliere fra la verità e Cristo, sceglierei Cristo”. La verità la puoi colorare in tante maniere, ti puoi fare una tua verità, ma Gesù Cristo non lo colori affatto: o l’accetti o lo rifiuti.
Se siamo costretti a parlare di valori, noi cristiani dobbiamo dare il vero nome a questi valori. Se parlo del bene, del vero, del bello, allora diciamo in verità che Dio è il bene, il vero, il bello.

Coloro che fanno penitenza.
Noi siamo fatti per la relazione e, se non siamo di Cristo, siamo del diavolo – ci ricorda Francesco. Non ci sono zone neutrali, franche, grigie, dove non siamo di nessuno. Noi uomini dobbiamo essere di qualcuno, perché siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio che è “relazione sussistente”.
Noi siamo fatti “per” e siamo sempre alla ricerca di qualcuno da amare e da servire. Non è pensabile l’uomo nel suo isolamento assoluto. Se non siamo di Dio, apparterremo al diavolo, il diavolo non si presenta con la coda e le corna, ma in modo attraente; l’idolatria delle cose è già essere del maligno, diventarne schiavi. Ecco perché Francesco elimina le cose inutili e le ritiene zavorra: egli vuole Dio solo.
Il capitolo secondo della Lettera a tutti i fedeli dice: “Coloro che non fanno penitenza, che sono negli istinti carnali… sono prigionieri del diavolo, del quale sono figli” (non è un’offesa: è un dato di fatto). Anche questa è una questione di relazione.
Le vere nostre sofferenze, le nostre vere gioie non sono forse nelle relazioni? Cosa c’è di più tormentoso di un grande amore rinnegato e tradito? L’amore ingannato lascia dentro di noi un solco profondo che non si cancella mai più. Io amo una persona e vengo tradito: è una morte. Provo gioia invece quando una persona che amo riceve un premio o riconoscimento, perché la sua gioia diventa immediatamente anche la mia. La mia gioia non è in me, ma è in colui che amo.
Somiglianza di Dio, anch’io mi realizzo, vivo realmente, nelle relazioni. Questo, Francesco l’aveva talmente chiaro che tutto ciò che non era relazione con Dio non lo voleva né per sé ne per i suoi fratelli. Per vivere autenticamente questa relazione con Dio, Francesco indica ai fratelli laici la via della penitenza.

Penitenza: fare spazio a Cristo
Don Divo Barsotti scrive in merito: “Per Francesco la penitenza è la conversione perenne, non è fare degli atti di rinuncia”. Cosa significa conversione? Dall’ebraico, vuol dire ritornare. La conversione non è un avvenimento che avviene una volta per sempre, né qualcosa che ci garantisce per il futuro. La conversione è un perenne ritorno a Dio. Ecco perché nell’ Antico Testamento i profeti, specialmente Amos e Osea, non fanno altro che dire: “Ritornate Israele, siete andati agli idoli, ritornate a Dio!”. Ovviamente per ritorno non si intende il rientro a casa o ai propri doveri di cittadini, ma ritorno alla relazione con Dio.
Gli Israeliti sono andati dagli amanti, perché i popoli vicini, attraevano il popolo eletto promettendo benessere economico. Per essere precisi il testo di Osea parla di olio, lino, lana e latte, beni di necessità. Questi elementi sono visibili, danno immediata soddisfazione, mentre Dio dà la vita eterna, è vero, ma al momento gli Israeliti non capiscono bene in che cosa consista questa vita eterna, mentre pane, olio, lana, eccetera, li capiscono bene. Perciò sono attraenti: sono in continuità con la nostra esperienza, mentre Dio è trascendente, invisibile.
Il demonio usa la stessa strategia: ci propone cose di immediata soddisfazione, per cui val la pena vivere (oggi non saranno pane, olio e lino, ma sarà una macchina, un buon conto in banca, una bella casa, eccetera), cose che di per sé sono anche buone, ma che tendono a sostituirsi a Dio, facendoci quindi schiavi. Ecco allora il grido del profeta: ritornate a Dio, ritornate al rapporto. La penitenza significa rigetto degli “amanti” e vita nell’unico rapporto vero in Cristo.
Per vivere l’unione con il Cristo come sposo, fratello e addirittura madre, io devo fare spazio dentro di me ed eliminare tutto ciò che non serve. Fare penitenza perciò vuol dire fare il vuoto, cacciare via le cose inutili. La penitenza assume qui un valore positivo: intendo fare penitenza in vista di un rapporto, non per me, per autocompiacermi, guardarmi allo specchio e dirmi come sono bravo. Io faccio penitenza per far spazio al Cristo, per dare il posto a Lui. Cade assolutamente l’aspetto meritorio perché la penitenza, scopriamo, ha valore relazionale.
Faccio penitenza non per far soffrire il corpo in quanto tale, ma per renderlo partecipe della presenza di un altro. Tant’è che Gesù ha detto “quando fate digiuno profumatevi”… Il digiuno profumato del Vangelo. L’ascesi buddista ha come fine invece la padronanza di sé, per arrivare al punto di dire “mi domino a un punto tale da vivere la perpetua imperturbabilità”. Però ne può venire di qui un orgoglio terribile, più o meno consapevole. L’ascesi nelle altre religioni ha come primo obiettivo l’autoaffermazione.
San Francesco non si accorge di fare penitenza. Chiamano Francesco il “poverello di Assisi”, ma è un errore: Francesco è il ricco di Assisi, perché quando hai Dio, hai tutto. La penitenza è per l’Amore, è il contributo che io do alla grazia di Dio perché essa si realizzi e si espanda in me, tant’è che non c’è santo nella Chiesa che non sia un penitente. La penitenza libera in me l’energia di Cristo risorto. Per fare penitenza però ci vuole metodo, dato che non è un moto spontaneo della natura; dopo il peccato originale l’uomo è incline piuttosto all’accomodamento, alla soddisfazione dei propri istinti; di qui la necessità di una certa disciplina.
La penitenza e la mistica camminano di pari passo, ascesi e amore non sono mai l’uno senza l’altro, però di fatto sembra che la penitenza abbia la funzione di proteggere e custodire la vita dell’amore. La parola ascesi deriva dal greco “askein” che vuol dire esercizio. Come tutte le imprese che hanno valore, esse si possono realizzare se chi le vuole raggiungere si allena: se vuoi vincere i cento metri piani alle Olimpiadi ti devi allenare molto, se vuoi il diploma in pianoforte devi fare molta pratica. Quando sei esercitato bene, puoi conservare e custodire ciò che hai raggiunto. Ecco la funzione della penitenza; senza di essa, la vita mistica può avere delle intuizioni, ti può venire il lampo, ma poi rimane poco.
La parola “penitenza” è assente nel Vangelo, c’è più il concetto di lotta. San Paolo parla più volte di lotta spirituale. Nella Lettera ai Colossesi: “Mortificate le membra che appartengono alla terra”. La traduzione greca letterale è questa: “Uccidete (date morte a) quella parte di voi che appartiene alla mondanità”. Qual è la parte di me che appartiene alla mondanità? Se la individuate, dovete ucciderla senza pietà.

Una via di santità per i laici
San Francesco scrive la Lettera ai fedeli rivolgendosi ai laici, e chiede ai penitenti che vivano la santità facendo spazio a Cristo e uccidendo quella parte che appartiene alla mondanità. Nel documento del Concilio Vaticano II, “Lumen Gentium” al n° 40 si legge che la vocazione alla santità è universale, cioè tutti in quanto battezzati sono chiamati a diventare santi. Invece noi sovente pensiamo che siano santi coloro che hanno doni carismatici fuori dal comune: ma questa è una scusa per accontentarsi di una appartenenza a Dio che non rechi eccessivo disturbo. Qual è lo specifico del laico? Voi vivete nel mondo, immersi in realtà tipicamente umane, la famiglia, il lavoro, la vita pubblica. Siete chiamati in quanto figli di Dio a santificare la famiglia, il lavoro, la socialità. In che modo entrate nelle varie realtà e le santificate? Con le prediche? No, voi le santificate santificando voi stessi, cioè con la presenza di Dio in voi. Andate nel luogo dove il Signore vi ha posto facendo luce con la vostra presenza là dove sono tenebre. E si crea subito uno spartiacque. Le tenebre vi verranno addosso, ma chi è assetato di Dio, riconoscerà misteriosamente la Sua presenza. Voi siete il profumo di Cristo, dice Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi. Di fatto questa luce passa nel luogo in cui voi siete, ma se non portate Dio dentro di voi è inutile che facciate lunghi discorsi … Don Divo Barsotti scrive: “Oh, essere nel mondo di oggi quello che fu Francesco nel suo secolo! Una presenza di Dio che illumina il mondo.” Il mondo è nelle tenebre: ieri, oggi, domani. E continua: “Tu non sei più, in te Dio soltanto deve rivelarsi in una purezza infinita”. Ecco il sacerdozio comune dei fedeli. Ci si santifica compiendo bene il proprio ruolo. Il medico si santifica facendo bene il medico, l’insegnante facendo bene il proprio dovere, ma pieni di Dio, ossia non avere alcun idolo da seguire ma portare Dio solo. Anche se nel vostro ambiente vi odiano. Il santo che entra nel mondo illumina la scena, divinizza ciò che è soltanto umano. Scrive ancora Divo Barsotti: “La vera riforma del mondo è la santità”.
Prendiamo il matrimonio: santificare il matrimonio vuol dire vivere nell’altro e in forza dell’altro. Il matrimonio è la via naturale della santità, è la palestra per imparare ad amare. L’esercizio dell’amore continuo fa sì che io esca da me, entra Dio e viva la mia relazione con l’altro non più come uno sforzo. Quindi per santificare il mondo, santifico me stesso. Il mondo è il luogo dove Dio mi ha messo; inutile sognare posti diversi. Amare il luogo dove Dio vi ha mandati è segno del vostro amore, perché il Signore vi chiama a santificare quel posto attraverso la penitenza e l’amore.

Padre Serafino Tognetti