Audiovisivo -Apocalisse simbolo di speranza e di salvezza.
13.05.2014 20:39
Filmato : San Giovanni Apocalisse (durata oltre un'ora)
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Filmato : Apocalisse simbolo di speranza di Bruno Maggioni (durata meno di 10 minuti)
Filmato : Interpretazione Apocalisse Da "Vade Retro" TV2000 (P.re Ugo Vanni - Teol. Walter Binni)
L’ultimo libro della Bibbia mostra la chiave di lettura della storia: il Cristo morto e risorto che vince il male e la morte. Il commento del biblista Bruno Maggioni alla simbologia che ha ispirato la mostra d’arte moderna nei chiostri di largo Gemelli.
Per quasi tutti “apocalittico” fa rima con catastrofico. Eppure apocalisse, nel suo etimo greco, non significa altro che “rivelazione”. L’ultimo libro della Bibbia, a cui è ispirata la mostra d’arte moderna esposta nei chiostri del complesso di largo Gemelli a Milano, non è un libro da comprendere con «l’ermeneutica degli effetti speciali» alla Armageddon, come spiega l’assistente ecclesiastico generale del’ateneo Sergio Lanza.
«Parla anche di catastrofi, ma non è un libro di catastrofi. Rivela piuttosto come possiamo rendere il mondo una sciagura», commenta nella video intervista di Cattolicanews Bruno Maggioni, uno dei maggiori biblisti italiani, docente di Introduzione alla teologia in Cattolica e di Esegesi del nuovo testamento alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. L’Apocalisse è un libro della speranza e del senso della storia.
Ogni opera della mostra coglie uno dei molti simboli di cui è intessuta l’Apocalisse. «Sono recuperati quasi dalla Bibbia – spiega il biblista -. Li troviamo complessi perché non sono presi uno a uno, ma tanti insieme. E poi perché sono simboli in movimento, come in una scena cinematografica. Non si possono leggere l’uno staccato dall’altro».
«L’Apocalisse – afferma l’esegeta comasco che vi ha dedicato più di una pubblicazione – è un libro molto bello, che però non è facile da comprendere. Bisogna decifrarne i simboli. Per esempio la rivelazione di un Dio che si proclama nel capitolo primo come l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine: il libro dà una risposta più al fine che alla fine della storia. E Gesù è la chiave interpretativa di una vicenda che viene da Dio e che a Dio torna: Cristo muore e sembra perdente, ma poi risorge, segno di un amore che, come la vita di ogni uomo, sembra soccombere, ma alla fine è l’unica cosa che dura e che vince la storia. Un pertugio che si è aperto e ci lascia intravedere la direzione».
Il percorso della mostra si snoda intorno agli altri temi classici dell’apocalisse, alcuni dei quali sono illustrati da monsignor Maggioni nel video che abbiamo realizzato: l’arcobaleno, il libro dei sigilli, la donna e il dragone, la bestia che viene dal mare, la città che scende dal cielo. La chiusura del libro è affidata a una grande immagine di speranza: una città che scende dal cielo nuova, perfetta, simmetrica. «La città vera è un dono di Dio e non una conquista dell’uomo. È la nuova Gerusalemme, una città regolare, dove non c’è nulla di più e nulla di meno. La cosa più bella di questa città – conclude Maggioni – è che non ha più nessun tempio. Qualche esegeta si affretta a spiegare, sbagliando tutto, che non avrà più nessun tempio pagano. No, non avrà proprio più chiese né liturgie della terra, perché non ce ne sarà più bisogno: ormai ci sarà solo Dio e noi lo vedremo faccia a faccia».
Dal sito web www.corsobiblico.it :
La Chiesa depositaria delle verità rivelate riconosce il libro dell’Apocalisse, ispirato da Dio. Quindi, l’Apocalisse come tutti i Libri della S. Scrittura, non solo insegnano con certezza, fedelmente e senza errore, le verità che Dio ha rivelato per la nostra salvezza, ma anche, come spiega S. Paolo “sono utili per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona” (2 Tim. 3, 16-17).
Nell’interpretazione del nostro Testo, ci guiderà il pensiero e la riflessione teologica della Chiesa.
La Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla Chiesa e il mondo contemporaneo (N. 39), ci dà le direttive per un’esatta interpretazione del testo apocalittico.
“Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo. Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo, però, dalla rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato nella debolezza e nella corruzione rivestirà l’incorruzione: e restando la carità con i suoi frutti, saranno liberate dalla schiavitù del male tutte quelle creature, che Dio ha fatto appunto per l’uomo.
Certo, siamo avvertiti che non giova nulla all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione di quello che sarà il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il regno di Dio.
E, infatti, i beni, quali la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Qui sulla terra il regno è già presente in mistero, ma con la venuta del Signore giungerà a perfezione”.
Premessa
Dopo questa chiara esposizione del Concilio Vat. II, diamo ora uno sguardo all’intero libro dell’Apocalisse che ha sempre destato impressione e timore nel lettore, soprattutto per il contenuto, oscuro e indecifrabile. Ci si trova di fronte ad immagini ardite e complicate; assistiamo agli sconvolgimenti cosmici più strani: esseri angelici e demoniaci, nelle forme più svariate e conturbanti, che si contendono il campo in una battaglia senza tregua. S’intravede, inoltre, un simbolismo, che non si riesce facilmente ad afferrare. A tutto ciò si aggiunge anche un fattore emotivo: l’approssimarsi dell’anno duemila, carico d’apprensione e preoccupazione per un’annunziata “fine del mondo” da parte di Sette o Movimenti religiosi.
Una lettura attenta e serena del testo, può essere utile per liberarci da timori e paure d’imminenti catastrofi che annuncerebbero la fine del nostro mondo.
Partendo da queste considerazioni, ho voluto approfondire per me e per le comunità parrocchiali quest’ultimo libro della Bibbia.
Prima del commento esegetico e spirituale all’intero testo, mi soffermerò brevemente sul genere letterario, sul titolo, sull’autore stesso, poi sul luogo di composizione, sull’anno di stesura del libro e, infine, su tutto lo schema del libro.
1) Il genere letterario.
Cos’è un genere letterario? Non c’è famiglia che non conservi gelosamente una sua documentazione privata: certificati di nascita, di battesimo e di matrimonio, pagelle scolastiche e fotocopie di diplomi, atti di compravendita di terreni o di case, fotografie di feste o di gite, corrispondenza privata e talvolta persino le “poesie” della figlia adolescente o i ricordi di un viaggio. Tutti documenti che non hanno alcun valore commerciale, ma che la famiglia conserva per il loro legame affettivo e simbolico, in quanto testimoniano le origini, la storia, i momenti belli o luttuosi.
La stessa cosa è capitato per la “famiglia” del popolo d’Israele: l’Antico Testamento è come l’archivio che raccoglie ogni specie di documenti provenienti da varie generazioni successive. La stessa cosa continuò nel N.T.: si conservano le memorie degli apostoli e dei discepoli (Vangeli), le loro lettere (S. Paolo), la cronaca dei primi tempi della comunità cristiana (Atti), la visione poetica e profetica di un Apostolo in esilio o in prigione (Apocalisse). Tutti questi documenti, così diversi tra loro per origine e contenuto, noi chiamiamo “generi letterari”; e leggendo la Bibbia se ne incontrano tanti. Riconoscerli e tenerne conto nella lettura è d’obbligo, per non fraintendere il senso del testo o per non tradire l’intenzione dell’autore. Sarebbe un errore leggere, ad esempio, un brano epico o un mito sapienziale come fosse una cronaca storica; o prendere una profezia per un’informazione notarile o una poesia per una trattazione teologica. Sarebbe come confondere un atto di battesimo o di matrimonio che si conserva nell’archivio familiare, con una poesia della figlia adolescente.
Tra i vari “generi letterari” ne esamineremo tre che sono presenti nel nostro testo.
a) “Il genere letterario apocalittico”.
Il linguaggio che l’autore adopera, sembra fuori del comune per noi lettori, abituati a brani evangelici di facile comprensione, almeno apparentemente. Questa forma narrativa, che l’autore adopera nasce da una sua deliberata scelta che va sotto il titolo di “genere letterario apocalittico”, che è un modo particolare di esprimersi, fatto di immagini grandiose e talvolta irreali, di simbolismi, di messaggi cifrati.
La gente capiva il messaggio cifrato dell’Apocalisse? Se l’autore ha scritto per farsi capire, occorre allora trovare il codice di lettura. Noi partiamo dall’idea che uno scrittore scrive per farsi capire e che abbia la certezza di essere capito dai suoi lettori, tanto più che nel libro stesso ogni tanto egli dà l’interpretazione di alcuni simboli. Vuol dire che per gli altri simboli non c’erano problemi. Egli riteneva che fossero comprensibili per i suoi lettori.
Chi erano i lettori, meglio gli “ascoltatori” del Libro, dal momento che l’autore afferma che il Testo doveva essere letto nell’assemblea (liturgica)? Non era gente colta, ma pescatori, tessitori, commercianti...Quindi non avevano bisogno di una grande cultura per capire il libro ma di una conoscenza completa dell’A.T.
Il significato etimologico del termine “apocalisse” è “rivelazione”, (dal verbo greco “apokaljpto”= “svelare”, deriva il sostantivo “apokàljpsis”= “rivelazione, manifestazione”). Questa espressione però, è diventata oggi abusivamente sinonimo di disastro, di catastrofe, di fine del mondo. L’Apocalisse della letteratura ebraica (Daniele nell’A.T.) e quella del N.T. contengono, certamente, descrizioni di fenomeni terrificanti, ma la loro intenzione è tutt’altro che intimidatoria o spettacolare. In una parola, esse “rivelano” una sola verità: la disgrazia, il dolore, la disperazione non avranno il sopravvento che per un tempo limitato, perché all’interno stesso delle presenti rovine, Dio sta preparando certamente “cieli nuovi e terra nuova”. Non si dimentichi che la letteratura apocalittica, che sarebbe nata nel tardo giudaismo (cioè alla fine dell’A.T.) ha avuto grande sviluppo in periodi di crisi religiosa e politica della storia d’Israele. Quando tutto sembrava perduto, gli apocalittici incoraggiavano il popolo oppresso ed alimentavano la speranza di una futura rivincita. In tal modo essi volevano aiutare i loro contemporanei a saper leggere, anche nelle situazioni storiche più disastrose, l’intervento di Dio, che non abbandona mai quelli che credono nel suo nome. In questo senso è tipico il libro di Daniele, spesso richiamato nell’Apocalisse, che con riferimenti alla storia passata (ad esempio l’imperatore Nabucodonosor, nel 600 a.C.), descrive la situazione a lui contemporanea, alludendo alla persecuzione di Domiziano (80-100 d.C.). Quando Giovanni scrive, la chiesa, il nuovo popolo eletto, è appena stata decimata da una persecuzione sanguinosa, scatenata da Roma e dall’impero romano (la bestia) ma per istigazione di satana, l’avversario per eccellenza di Cristo e del suo popolo.
L’Apocalisse, quindi, è un libro scritto per un tempo di crisi e destinato a una comunità terribilmente messa alla prova, che ha bisogno quindi di conforto. E’ un messaggio di speranza che riassume tutti gli obblighi del cristiano, in tempo di persecuzione, nel dovere di una fedeltà incrollabile alla causa di Cristo e della Chiesa.
Per completare il nostro discorso sul “genere apocalittico” c’è da fare un’altra osservazione: spesso questo stile letterario accentua il tema della “fine dei tempi” (non della “fine del mondo”). Di che si tratta? Per i profeti ebrei è il momento in cui verrà sulla terra il Messia atteso e darà inizio al regno messianico, con la differenza che per Giovanni questo regno è già venuto; egli è un discepolo di Cristo e quindi può affermare con certezza che il regno messianico si è inaugurato con Gesù, e quindi, la sua Apocalisse è la risposta all’apocalisse di Daniele: ciò che Daniele ha annunciato, si è realizzato nella persona e soprattutto nella morte e resurrezione di Gesù.
Il genere apocalittico si rivela, inoltre, come l’erede del profetismo in quanto esso mira a sviluppare, con maggiore precisione, l’uso dei simboli. La maggior parte dei simboli dell’Ap. sono presi dalla tradizione profetica continuata dall’apocalittica, per es.: una donna simboleggia un popolo (12,1ss.) o una città (17, 1ss.), le corna sono simbolo di potere (5,6; 12,3), in particolare di potere dinastico (13,1; 17,3 ss.), gli occhi, di conoscenza (1,14; 2,18; 4,6; 5,6) e le ali, di mobilità (4,8; 12,14). Nelle trombe si ode una voce sovrumana, divina (1,10; 8,2 ss.); un’acuta spada designa la parola di Dio, che giudica e punisce (1,16; 2,12.16; 19,15.21). Le bianche vesti significano il mondo della gloria (6,11; 7,9.13 ss.; 22,14); le palme sono segno di trionfo (7,9); le corone di dominio e regalità (2,10; 3,11; 4,10; 6,2; 12,1; 14,14); il mare è un elemento maligno, fonte d’insicurezza e di morte (13,1;21,1). Il colore bianco indica la gioia della vittoria (1,14; 2,17; 3,4; 4,4; 6,11; 7,9.13; 19,11.14); lo scarlatto, la lussuria e la regalità (17,4; 18,12.16); il nero, la morte (6,5.12).
Anche i numeri acquistano una notevole importanza: sette (54 volte) significa pienezza, perfezione; dodici (23 volte) si richiama alle dodici tribù d’Israele e indica che il popolo di Dio ha raggiunto la sua perfezione escatologica;quattro (16 volte) simboleggia l’universalità del mondo visibile (4 infatti sono i punti cardinali); degni di nota sono anche altri numeri: tre (11 volte), riguarda il regno dello spirito e può essere la Trinità; dieci (10 volte) mille (6 volte nel capitolo 20) e i suoi multipli sono numeri indeterminati.
Tre casi suscitano un particolare interesse: la durata della persecuzione è fissata in 1260 giorni (11,3;12,6) o in 42 mesi (11,2;13,5), oppure in tre anni e mezzo (12,14); i 144.000 “seguono l’Agnello dovunque va” (7,4-8; 14,1-5); infine, si fa riferimento alla Bestia mediante il numero 666.
Le apocalissi ebbero un grande successo in certi ambienti giudaici, compresi gli Esseni di Qumran, nei due secoli precedenti la venuta di Cristo. Preparato già dalle visioni di profeti come Ezechiele o Zaccaria, il genere apocalittico si sviluppò nell’opera di Daniele e in molte opere apocrife scritte intorno all’era cristiana.
b) Genere letterario “profetico”.
Per profezia non intendiamo specificatamente o anche principalmente la predizione del futuro – concezione piuttosto recente – ma piuttosto la mediazione e l’interpretazione della volontà di Dio. E’ in questo senso che “prophetes” (lett. “uno che parla per un altro” o “interprete”) era usato a cominciare da circa il V sec. a.C., per designare coloro che interpretavano la volontà divina, resa nota in vari modi a loro stessi o ad altri.
I mezzi di comunicazione profetica, erano in generale gli stessi che sono presupposti nella profezia dell’A.T.: sogni, visioni, esperienze estatiche o mistiche.
Anche oggi Dio parla al suo popolo, come nel passato ha parlato per mezzo di strumenti come Francesco d’Assisi, Caterina da Siena ed altri, spesso attraverso esperienze simili a quelle dei profeti della Bibbia.
Poiché la profezia è un carisma che per se stesso nulla dice circa l’ortodossia o il carattere morale del profeta, non c’è motivo per limitare lo spirito profetico di Dio esclusivamente ai canali normativi della Storia della salvezza. Gli oracoli di Balaam in Num. 22-24 erano ritenuti vere profezie di Jawéh, anche se la tradizione biblica ha posto Balaam tra i nemici di Dio e del suo popolo (Num. 31,8.16; 2 Pt. 2,15; Ap. 2,14). Secondo la spiegazione di S. Tommaso, siccome la profezia non è un habitus ma una mozione transeunte, la stessa persona può profetare sia il vero sia il falso, a seconda che sia stata toccata o no dallo Spirito di Dio.
Veri e falsi profeti abbondano non solo nell’antichità, dell’A.T. e del N.T., dentro e fuori il popolo di Dio, ma anche in tempi più recenti.
Nell’A.T. i falsi profeti erano di solito, profeti di corte, il cui interesse era di dire al re e ai suoi ufficiali quello che desideravano sentire; ed erano perciò anche quelli che ricavavano benefici pecuniari da profezie favorevoli che assicuravano i loro clienti delle benedizioni divine, e che non provocavano crisi di coscienza.
Questo genere di profetismo, il popolo d’Israele l’ha ereditato dall’antico vicino Oriente.
Al tempo dei profeti la distinzione tra vera e falsa profezia non era sempre chiara. Il possesso di uno “spirito” profetico estatico non era un criterio sicuro: i profeti potevano essere toccati dallo spirito e anche profetare il falso, inoltre la maggior parte dei profeti non danno segni certi di essere stati estatici.
Il compimento della profezia, anche nel caso che fosse stato sempre evidente per i contemporanei del profeta, non era un segno infallibile come mostra Dt. 13,2ss., anzi, la vera profezia spesse volte restava apparentemente inadempiuta scoraggiando anche lo stesso profeta (Ger. 20,7ss.).
Quando il profeta Anania profetò quello che era il suo profondo desiderio, predicendo la fine dell’esilio babilonese dopo due anni e il ritorno al trono di Ieconia (Ger. 28,1 ss.), Geremia per contraddirlo poteva offrire solo la convinzione che la propria opposta profezia era vera: “Amen! Così faccia Jahvéh! Adempia il Signore quello che tu hai profetizzato...”. Geremia avrebbe preferito moltissimo profetare come Anania; però sapeva di non poterlo fare, poiché non era questa la parola di Jahvéh. Geremia non dice soltanto che un profeta di sventura deve essere creduto, mentre si deve respingere un profeta che predice la pace. Egli prende posizione basandosi sulla tradizione profetica che è così sintetizzata: chiunque conosce veramente Dio riconoscerà anche il suo vero profeta distinguendolo dal falso, perché la profezia deve essere conforme alla natura di Dio come Egli l’ha rivelata.
Anche Gesù, secondo Gv. 5,37ss., difese il suo caso in modo simile davanti alla sua generazione.
I profeti classici del pre-esilio, da noi conosciuti sono i cosiddetti profeti letterati dei secoli VIII, VII e VI a.C. In ordine approssimativamente cronologico essi sono: Amos, Osea, Isaia, Michea, Naum, Sofonia, Abacuc; Geremia ed Ezechiele.
Poi ci sono i grandi profeti dell’esilio babilonese (600 a.C.): Geremia, Ezechiele e il Deutero-Isaia.
Infine, i profeti del post-esilio: il Trito-Isaia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Abdia e Gioele.
La sparizione della profezia in Israele avvenne nel silenzio come il suo inizio, sarebbe impossibile determinare chi fu l’ultimo profeta dell’A.T. Negli ultimi 200 anni prima di Cristo gli scrittori sapienziali continuarono coscientemente la tradizione ereditata dalla profezia (Sir. 24,31; Sap. 7,27), senza però pretendere di possedere uno spirito profetico.
Non è facile definire esattamente la frontiera che separa il genere letterario apocalittico da quello profetico, di cui esso (quello apocalittico) è per alcuni aspetti un prolungamento. Ma, mentre gli antichi profeti ascoltavano le rivelazioni divine e le trasmettevano oralmente, l’autore di un’apocalisse invece riceve le rivelazioni in forma di visioni, che riferisce in un libro. D’altra parte, queste visioni non hanno valore in sé, ma per il simbolismo di cui sono cariche.
c) Il genere episolare. Questa terza forma letteraria ha lasciato un’impronta superficiale nell’Apocalisse. Il libro è redatto sullo schema delle solite formule epistolari cristiane (le Epistole nel N.T.). Inoltre il messaggio comunicato a ciascuna delle sette chiese (Ap. 2, 1-3,22) assume la forma di una lettera.
2) L’autore
L’Autore si firma col nome di Giovanni all’inizio e alla fine del libro. Nell’antichità, a cominciare da S. Giustino verso il 150, si è identificato l’Autore dell’Apocalisse con l’Apostolo Giovanni (autore del IV Vangelo). Ben presto però nacquero dei dubbi sulla paternità giovannea dell’Apocalisse. La difficoltà dell’identificazione veniva dalla lingua, molto diversa tra il Vangelo e l’Apocalisse.
Addirittura alcuni Padri (Giovanni Crisostomo, Gregorio Nazianzeno) consideravano l’Apocalisse non canonica, cioè apocrifa.
Anche all’inizio della Riforma (1537) si è dubitato della sua canonicità: dal XVII secolo, però, nelle edizioni protestanti è stata reintrodotta fra i libri del N.T. Per i cattolici la questione della canonicità è stata risolta definitivamente dal Concilio di Trento (8 Aprile 1545).
Se a proposito della “canonicità”, oggi non ci sono più dubbi, sulla sua “autenticità” i dubbi sono aumentati. Pur non negando notevoli rassomiglianze sia linguistiche che dottrinali con il quarto Vangelo (si pensi, ad esempio, all’immagine di Cristo come Agnello, come Verbo di Dio), è altrettanto vero che il genere letterario apocalittico è qualcosa di completamente diverso dal genere letterario evangelico, anche la lingua è piuttosto rozza e approssimativa, insofferente delle regole grammaticali e sintattiche; lo stile non è fluido, ma contorto e ripetitivo.
Oggi l’opinione prevalente fra gli studiosi, è che l’autore del nostro libro, sia da ricercare fra i discepoli di Giovanni l’Apostolo (si parla di una scuola catechistica “giovannea” sorta ad Efeso). Costoro avevano assimilato il suo pensiero e avrebbero portato a termine la redazione finale di tutti gli scritti giovannei.
3) Luogo di composizione.
Giovanni - come gli altri scrittori apocalittici - si presenta come appartenente ad un gruppo perseguitato per la propria fede (1,9). Nel nostro caso si tratterebbe, forse, di un esilio forzato imposto all’Autore dell’Apocalisse da parte delle autorità politiche del tempo. Da quest’isola egli si assume il compito di fortificare i suoi fratelli svelando loro il significato dell’oppressione di cui sono vittime e il traguardo glorioso della loro sofferenza. Apparentemente lo scontro è tra l’impero romano e la Chiesa cristiana, ma in realtà satana e Dio sono alla guida di questi due schieramenti; pertanto non ci possono essere dubbi sull’esito della battaglia. Con la vittoria finale che Cristo avrà su satana e i suoi seguaci, sarà inaugurato un mondo completamente nuovo creato da Dio, che va sotto il nome di “Gerusalemme celeste”. Tutti i cristiani fedeli saranno cittadini di questa nuova Gerusalemme. Tale modo di concepire l’evolversi della storia, visto come scontro tra due potenze opposte, è tipico della teologia apocalittica.
L’Apocalisse è stata scritta certamente in Asia Minore (le città ricordate sono tutte dell’Asia Minore), probabilmente ad Efeso (secondo la tradizione). L’autore, quando ha la visione che dà origine al libro, dice di trovarsi nell’isola di Patmos, di fronte ad Efeso, a causa della Parola di Dio (prigionia o apostolato?).