Infinita pazienza di ricominciare

29.09.2019 18:33

Filmato   :   L'infinita Pazienza di Ricominciare

 ERMES RONCHI

INTRODUZIONE

L’infinita pazienza di ricominciare”. È un buon titolo, per ogni giorno della nostra vita, ma anche per salutare l’inizio di una nuova collana, che mette insieme le Edizioni Romena e le Parole e il Silenzio, ovvero il ciclo di incontri che la Fondazione Baracchi organizza da anni in Casentino.

È un titolo come una promessa e un augurio, come la nuova fioritura di una pianta tenace, che sa resistere alle intemperie e ritrovare bellezza dopo ogni gelata.

È stato con questo titolo che ci siamo congedati dal 2015, in uno splendido pomeriggio di autunno trascorso insieme alle parole di un poeta della fede e della vita come Ermes Ronchi. Degna conclusione di un anno più difficile degli altri, in cui abbiamo sentito il bisogno di “tornare a casa”. Ovvero di riordinare la nostra vita, di recuperare energie e stabilire priorità. È un passaggio necessario, soprattutto in tempo di crisi o dopo un grande dolore, per prepararsi al futuro.

Molte cose può evocare la parola “casa”. Un porto sicuro, il calore degli affetti, il tempo del ristoro e del raccoglimento. Il cammino verso se stessi e le radici che affondano profonde per farci crescere meglio.

Ma casa è anche il luogo di ogni inizio, di ogni nuova partenza, di ogni risveglio. È questa casa che siamo tornati ad abitare, grazie a una persona amica della Fraternità di Romena, che ancora una volta ha voluto regalarci la visione larga della sua saggezza, la profondità del suo cuore.

In quel pomeriggio Ermes ci ha aiutato a comprendere che non esiste paura che la nostra pazienza non possa domare; che dopo ogni inverno c’è sempre una primavera ad attenderci; che il modo migliore per volersi bene è custodire uno spazio aperto in ogni giornata, per il silenzio, la preghiera, l’ascolto.

È così che la nostra vita diventa pozzo inesauribile, da cui tirare fuori l’acqua della speranza. «È bello vivere scriveva Cesare Pavese – perché vivere è cominciare, sempre, a ogni istante». Sarebbe stato bello se avesse potuto incontrare un tessitore di futuro come Ermes.

Ci sono testimonianze che non sono solo discorsi messi in fila, sono davvero un testimone che passa di mano, come per dire: adesso tocca a te. Ci sono incontri che non si concludono al momento dei saluti, che proseguono dopo il ritorno a casa, destano emozioni e riflessioni la sera stessa e i giorni dopo, si fanno vibrazione, respiro, segno. Ci sono parole che si fanno largo nella nostra vita e che è bene si depositino anche su una pagina, perché è così che si fanno cammino nel mondo.

Anche per questo – proprio mentre le Parole e il Silenzio si appresta a entrare nel suo decimo anno comincia questa nuova collana di piccoli grandi libri. Perché di ciò che è stato importante rimanga qualcosa. E riesca a farsi ancora dono, seme di novità, occasione per ricominciare. Ne abbiamo tutti bisogno.

Paolo Ciampi
Massimo Or
landi

ERMES RONCHI

«La mia vita è stata bellissima, un’avventura piena di orizzonti, di spazi, di esperienze, da quando facevo il bracciante agricolo nel Monferrato e lo spazzino comunale in Canada, sin quando ho avuto l’immensa fortuna di conoscere il mondo, di scrivere tanto, di predicare alla parrocchia più grande d’Italia, la televisione».

Davanti alla sua gente, gente semplice, la gente di Racchiuso di Attimis, in Friuli, padre Ermes mette tutta la sua vita dentro queste poche parole, per far festa ai suoi 40 anni da prete. Poi si ferma un attimo, chiude gli occhi. Li riapre sul senso profondo di questa felicità: «È possibile per tutti vivere meglio, e Gesù ne possiede la chiave. La porta è stretta, ma si apre su di una festa».

Padre Ermes è frate, teologo, scrittore, poeta. Ma prima ancora di questo è un uomo innamorato. Innamorato della fede e della vita. Per questo le sue parole hanno un dono di poesia: nascono dalla concretezza della terra, vive, e conoscono la strada per arrivare al cuore. La sua vita gli assomiglia. Comincia, nell’agosto del 1947, i suoi occhi si aprono sulla campagna friulana, sulla sua terra contadina, il suo è un battesimo di bellezza, di natura e di semplicità.

La vocazione arriva presto, sul carretto di un frate che raccoglie le offerte. Ha dieci anni Ermes, e nel vederlo si lascia dire “anch’io”. Un mese dopo entra in seminario.

Quella scelta bambina, quell’intuizione, sboccia diversi anni dopo: è l’onda calma delle parole di un altro frate, Giovanni Vannucci, a condurlo verso il Dio che aveva cercato, senza trovarlo, nelle forme e nei modi della chiesa «tradizionale»: «Quell’anno, il 1965 – ricorda -, una mano sapiente e tenera e al tempo stesso forte ridipingeva la mia icona interiore, una nuova immagine di Dio; Dio divenne un desiderio e Dio divenne finalmente bello».

Il Dio che incontra padre Ermes è un «Dio che non spreca la sua eternità in vendette, non spreca la sua onnipotenza in castighi, ma che è compassione, futuro, approccio ardente, mano viva che tocca il cuore e lo apre, che porta luce e gioia, amore che fa ripartire la vita, luce».

La parabola della zizzania, nell’interpretazione di Vannucci, schiude l’anima profonda della sua spiritualità: «Voi non dovete avere verso voi stessi l’atteggiamento dei servi del campo che dicono “c’è la zizzania, corriamo e strappiamola”, ma l’atteggiamento del padrone del campo che dice “no, abbiate pazienza”; se in voi ci sono dei difetti, se in voi c’è un peccato, lo scopo primario non è quello di strappare via tutto ciò che di negativo c’è in voi, ma di far crescere il positivo, di far maturare il buon grano, perché una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania di un campo, perché il bene conta più del male».

L’uomo non coincide con il suo peccato, ma con le sue potenzialità: questa certezza contiene lo zaino con cui padre Ermes inizia la sua vita religiosa. Frate dei Servi di Maria, sacerdote nel 1973, Ermes dà vita ad alcune esperienze comunitarie innovative al di fuori dei conventi tra Veneto e Piemonte, pratica vari mestieri, finché finalmente si lascia guidare dal buon grano che sente nascere dentro di sé e decide di perfezionare i suoi studi in Francia, all’università la Sorbona di Parigi, dove aggiunge alla laurea in teologia il dottorato in scienze religiose e antropologia. È una tappa decisiva della sua formazione. Ma siccome la teologia non può prescindere dalla vita, anzi ne è frutto, Ermes alimenta il cammino di esperienze comunitarie a Rovato (Brescia) e Verona prima di arrivare (siamo nel 1994) a Milano nel convento dei Servi di Maria di San Carlo.

La città lombarda è tappa di arrivo e di partenze. Da qui padre Ermes si muove ovunque per trasmettere il vento di vita della Parola: «Mi sento servo, ministro al servizio della Parola: è la passione, è il richiamo, la fonte, la roccia, il nido della mia vita. Annunciare la Parola, scrivere della Parola, tradurla nel linguaggio di oggi sono le pietre miliari del mio cammino quotidiano».

Per cinque anni padre Ermes ha l’opportunità di trasmettere l’energia comunicata da Gesù attraverso il vangelo a milioni di persone: conduce infatti la trasmissione di Rai Uno “Le ragioni della speranza”.
E per mostrare che la speranza è molto più viva di quanto pensiamo, dà al programma un volto itinerante: ogni settimana la lettura e il commento del vangelo diventano anche il modo per incontrare e raccontare un luogo, una comunità, un’esperienza di fede. Quei dieci minuti sono un lievito di vita, per chi li ascolta.

Oggi padre Ermes è priore di San Carlo e parroco della chiesa, nel cuore di Milano, nonché direttore della Corsia dei Servi, l’associazione culturale tanto cara a padre David Maria Turoldo, altro suo grande riferimento.

Legge, scrive, insegna, medita, incontra, abbraccia. La sua fede è una fede aperta, larga, la fede in un Dio che non giudica, ma ama.

«lo – così sintetizza la sua fede – credo all’amore. I cristiani sono quelli che credono all’amore. Non si crede ad altro, non all’eternità, all’onnipotenza, ma all’amore. E questo è molto importante, perché all’amore possono credere tutti, giovani e meno giovani, credenti e lontani, chi ha un cammino spirituale, chi è lontano da ogni via religiosa, l’omosessuale e il risposato che scommette una seconda volta sull’amore».

Questa fede larga, accogliente che tutto e tutti abbraccia, questa fede oggi trova spazi e respiri anche nel cuore dell’istituzione. In Vaticano. È la chiesa di papa Francesco, è la primavera della chiesa che rinasce con lui.

Non a caso, il giorno prima dell’incontro di Romena, che qui raccontiamo, padre Ermes ha ricevuto la più speciale delle telefonate. «Sono papa Bergoglio, vorrei chiederle un favore. Vorrei che lei tenesse a me e alla curia vaticana gli esercizi spirituali in preparazione alla prossima Pasqua».

Mentre pronunciava le parole che ora leggerete, padre Ermes teneva questa responsabilità e questa gioia nel cuore. La responsabilità delle parole, le parole da trovare, da scegliere e cui affidarsi, ma ancor più la gioia di esserci, di poter avere davanti, in giornate di incontro e di preghiera, chi sta conducendo la chiesa laddove padre Ermes ha sempre sognato.

Anche per questo, quel pomeriggio Ermes ha potuto far sentire a tutti, con tanta passione, il calore promettente della parola “ricominciare”.

 

Tutti uniti nella vita andiamo cercando lorizzonte:rischia, fai qualcosa in più, rischia, impegnati senza vacillare; nessun cammino è lungo per chi crede e nessuno sforzo è grande per chi ama.

Pietra su pietra si alza il sogno, cambiamo le promesse in realtà, lottiamo come fratelli per la giustizia. Seminiamo laurora oggi di un giorno nuovo. (Canto popolare dellAmerica latina)

Romena, 8 novembre 2015

INFINITA PAZIENZA DI RICOMINCIARE

Tesori d’azzurro,

che ogni giorno, in volo ripetuto,

porto alla mia terra! Polvere dalla terra.

che ogni giorno porto al cielo!

Oh quanto ricche le mani della vita.

tutte piene di fiori del cielo!

Quanto pura. ogni stella.

nel bruciar pene della vita!

Oh quanto ricco io, nel regalare a tutti

tutto quello che raccolgo e cambio coi miei sogni!

Che gioia questo volo quotidiano,

questo libero servizio,

dalla terra ai cieli.

dai cieli alla terra!

(Juan Ramòn Jiménez)

Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E quando sbagli strada, ripartire da capo. E là dove ti eri seduto, rialzarti. Salpare a ogni alba verso isole intatte.

Ma non per giorni che siano fotocopia di altri giorni, bensì per giorni risorti, passati al crogiolo di amore, festa e dolore che è la vita, e restituiti un po’ più puri e più leggeri.

E poi utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza.

Le parole più caratteristiche della mia fede cominciano tutte con un prefisso: “ri”, due sole lettere per dire “da capo”, “ancora”, “di nuovo”, “un’altra volta”.
Sono le parole rinascita, riconciliazione, risurrezione, rimettere il debito, rinnovamento, la stessa parola religione, e redenzione.

È quella piccola sillaba “ri” che dice: “non ti devi arrendere, c’è un sogno di cui non ti è concesso stancarti”.

Vorrei dirlo con una citazione di san Gregorio di Nissa, il quale suggerisce: «Noi andiamo tutti di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi». Perché con Dio c’è sempre un dopo, lui non permette che ci arrendiamo, offre sempre una seconda possibilità, e non una volta soltanto, ma ogni volta di nuovo. È come se Dio perennemente ti dicesse: vieni, con me vivrai solo inizi; non stileremo consuntivi, ma tracceremo preventivi.

Sono stato recentemente in Mongolia, in quella che è la chiesa più giovane del mondo, in una piccola comunità missionaria di frontiera, e mi piaceva domandare ai cristiani di quella chiesa nascente, sorgiva: «Che cosa ti ha sedotto del cristianesimo?». Una delle risposte più frequenti è stata: «Sono diventato cristiano perché ho capito, ho sperimentato che la mia vita può ricominciare. Ho sbagliato molto, ma la misericordia di Dio mi ha fatto ripartire». Avevano intuito che l’uomo può rinascere dall’alto.

Il ricominciare ha una direzione, e non è quella del criceto che gira impazzito nella ruota. La indica un’espressione di padre Giovanni Vannucci: «la vita spirituale è crescere a più libertà, a più consapevolezza, a più amore».

Crescere a più libertà. Liberi da che cosa? Soprattutto dalla paura. 365 volte ritorna nella Bibbia l’esortazione di Dio: non temere, non avere paura. 365 volte, una al giorno, il buongiorno di Dio, a ogni risveglio: non temere!

E queste sono anche le tre semplici regole dell’umana pedagogia, che ricavo dal testamento di un prete operaio di Milano, don Cesare Sommariva: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. E poi la libertà dalla lettera che – come hanno insegnato i maestri dello spirito – va adoperata non per adorare la cenere, ma per custodire il fuoco.

Più libertà e più consapevolezza. Tra gli égreph di Gesù (sono detti – /6gia – di Gesù non scritti nei testi canonici, ma tramandati da altre fonti, in margine ai racconti evangelici) ce n’è uno inserito dopo il brano di Luca in cui i discepoli si fermano a strappare le spighe e a mangiarle in giorno di sabato (cfr. Lc 6,l 5). Dice: «Il Maestro, vedendo un uomo lavorare di sabato» – che era il peccato più grave – «disse: “O uomo, se sai perché lo fai, sei benedetto; se non lo sai, sei colpevole”».

Si può infatti trasgredire ed essere benedetti, se sai perché lo fai. Come afferma Dietrich Bonhoeffer: «Qualche volta per essere giusti bisogna commettere un peccato».

E poi più amore. Amore è la passione di unirsi, il desiderio di unione con l’oggetto del tuo amore. Essere innamorati è l’unica prefigurazione del regno. Come scrive Christos Yannaras nel suo libro Variazioni sul Cantico dei Cantici: «Solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi Dio e perché corri dietro di lui».

In principio, dunque, i legami. Non c’è infinito quaggiù al di fuori delle relazioni buone.

L’infinita pazienza di ricominciare è espressa nella Bibbia con due parole che indicano una sola cosa, un unico movimento. Scorrendo i 73 libri di cui è composta la Bibbia, ci si accorge che il dialogo tra cielo e terra è tessuto con un filo molto fisico, un filo quasi corporeo. I grandi tornanti della sacra scrittura sono indicati dall’espressione «alzati e va’».

Alzati dalla posizione seduta o arresa, dalla vita immobile, e mettiti in cammino. È detto nei momenti decisivi: ad Abramo, al popolo in Egitto, ai profeti che si erano accomodati o omologati, è detto a Giona a Elia, ai grandi peccatori, a Giuseppe per la fuga e per il ritorno dall’Egitto; la risurrezione stessa di Gesù è detta con i verbi dell’alzarsi e dello svegliarsi. In tutti i libri della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, si trova questo filo conduttore: «alzati e va’», ricomincia.
Ma l’espressione ricorre con più frequenza negli Atti degli Apostoli, cioè nel libro della chiesa nascente, nel libro più nostro, che racconta di noi che tentiamo di seguire le orme di Cristo.

Per noi è scritto questo «alzati e va’». Da dove ci eravamo fermati, Dio ci fa ripartire. Dio è un colpo di vento nelle vele della nostra nave.

Io la vela, Dio il vento, un vento che non sai da dove viene e dove va, ma sai di sicuro che lui è «un vento che non lascia dormire la polvere», come dice padre David Maria Turoldo in un suo inno. E per contrasto a questo «alzati e va’» basta pensare al titolo di un libro di Michele Serra sulla nuova generazione: Gli sdraiati.

In opposizione alla vita sdraiata il vangelo offre le beatitudini. Pensiamo all’etimologia profonda del termine “beati”, che André Chouraqui traduce così: «In piedi voi, i poveri, alzatevi! Dio cammina con voi. In piedi, in marcia voi non violenti! Dio vi dà la terra». In piedi, per una vita verticale.

Alzarsi per avviare processi, per iniziare percorsi, per un primo passo che è sempre possibile, in qualsiasi situazione ci si trovi, almeno un passo. Anzi il salmo 84 (il salmo del pellegrino) canta con un’espressione stupenda: «Beato l’uomo che ha sentieri nel cuore». Il vangelo apre sentieri nel cuore, fa andare. Noi siamo programmati così: l’uomo per star bene deve andare. Già Aristotele diceva: «la vita è nel movimento».

L’infinita pazienza di ricominciare ha un secondo punto di vista, che Geremia illustra così: «Scesi nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18,3-4).

Il vasaio – che è Dio – non butta mai via la creta, non ti butta mai via, ti riprende in mano, ti rimodella con la forza paziente delle mani, con il calore dei polpastrelli, con la visione interiore di ciò che puoi diventare.

C’è un detto rabbinico che assicura: per noi lavorare con vasi rotti, con pentole rotte, è una sciagura; per Dio, al contrario, è un’opportunità. Noi siamo le anfore rotte di Dio, rimesse sul tornio sempre di nuovo.
Oppure, seguendo un’altra bella metafora: le anfore che si rompono non possono più contenere l’acqua, è vero, ma possono essere adoperate per fare da canale, attraverso cui l’acqua scorre libera e arriva alla sete di altri.

Ricominciare: anche se siamo anfore rotte, possiamo diventare canali, servire ancora all’acqua, seppur con un altro ruolo.

OGNI GIORNO RITROVARE SE STESSI

Siamo figli prodighi a noi stessi, che talvolta si sono smarriti, lontano da casa.

Ritrovare se stessi inizia da una domanda: ma chi sono io? Sono forse i miei pensieri? Ma quante idee sbagliate ho coltivato e abbandonato … Sono forse quelle idee sbagliate? No.

Sono la mia volontà, le mie decisioni? Ma quanta fragilità …

Sono i miei sentimenti? Ma ho dentro una tavolozza complessa, che oscilla dai colori più scuri ai più luminosi …

Io non sono i miei pensieri, non sono la mia volontà, non sono i miei sentimenti. C’è qualcosa di più profondo di idee, decisioni ed emozioni, e tutte le religioni l’hanno, da sempre, chiamato “cuore”. Che non è la sede dei sentimenti, ma il mio principio di unità. Il cuore è la cattedrale del silenzio, là dove si sceglie la strada, dove si accolgono o si respingono le emozioni che sorgono selvatiche. Il luogo delle infinite rinascite, dove si ascolta, si ama, si gioisce, si sceglie.

1. Alcuni passi mi hanno aiutato e mi aiutano a ritrovarmi, innanzitutto a partire dalle domande del cuore.

La prima domanda, la più vitale, quella in cui ritrovo il cuore, da cui inizia ogni incontro con la mia anima, è questa: ma io sono contento? Mi piace la mia vita?
Questa prima domanda non è di tipo morale o etico (sono buono o cattivo? Credo poco o credo male?), ma riguarda ciò che germoglia nel mio spazio vitale: ma io sono felice? Il problema della felicità coincide con il problema dell’esistenza, diceva Friedrich Nietzsche.

In principio una domanda. Anche Dio ci educa alla vita, alla fede, attraverso domande, non attraverso formule o risposte. La prima parola di Gesù nel vangelo di Giovanni è una domanda: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Qual è il vostro desiderio profondo? Le domande sono la bocca affamata e assetata attraverso la quale gli uomini mangiano, bevono, respirano, baciano.

Questa domanda (ma io sono contento?) è come un punto di agopuntura che, attivato, contribuisce a guarire l’intero corpo.

La seconda domanda è un approfondimento della prima: quali sono le cose che mi procurano gioia, ma gioia che duri? Lo specifico metro della gioia non è l’intensità, una fiammata che brucia tutto, ma la durata. Don Michele Do amava ripetere un suo slogan: dura ciò che vale e vale ciò che dura.

Il primo esercizio per ritrovare il cuore è stilare l’elenco – ed è breve – delle cose che mi danno gioia che dura. Forse mi accorgerò che la gioia viene dai volti. Questo è il perno attorno al quale la vita ritrova se stessa.

L’ho imparato leggendo la vita di Ignazio di Loyola, cavaliere di Spagna ferito all’assedio di Pamplona. È ricoverato in un piccolo ospedale per la convalescenza e si fa portare dei libri da leggere, libri di due tipi: storie di cavalieri e storie di santi. Lui scrive: «Mi piacevano tutti e due i generi, ma c’era una differenza: uno di questi mi procurava un piacere che durava più a lungo dell’altro, ed erano le vite dei santi». Questa esperienza di piacere più duraturo è il punto di partenza della sua conversione.

Sant’Agostino l’aveva teorizzato così: nelle scelte della vita vince la promessa di più gioia, perché «l’uomo segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità».

Che cosa fa muovere e avanzare la vita? Un’attrazione e una passione. Perché la vita non è statica, ma estatica (cioè esce da sé), la vita è un uscire, un andare oltre … Non avanza per divieti o per obblighi, ma per attrazione. Avanza per una passione, e la passione nasce da una bellezza, almeno intravista: la bellezza è profezia di gioia.

La cosa più bella è comunque – sempre – l’atto d’amore. La cosa più bella della storia è l’atto d’amore accaduto fuori dalle mura di Gerusalemme, su quella collina, dove il Signore Gesù, povero, si fece crocifiggere su un po’ di legno conficcato su un palmo di terra, quel tanto che bastava per morire.

2. Alle domande del cuore, anche tre verbi mi aiutano a ritrovarmi: vedere, fermarsi, toccare.

Sono tre dei dieci verbi con cui è descritto il buon samaritano che incrocia l’uomo incappato nei briganti (Lc 10,30-35). Dieci verbi che mi piace sentire e leggere come se fossero i nuovi dieci comandamenti, il nuovo decalogo, possibile a tutti, a chi ha una vita religiosa e a chi non ce l’ha, perché la vita sia abitata da prossimi e non da avversari.

I dieci verbi: vide, ebbe compassione, si fermò, versò, fasciò, caricò, portò, fece tutto il possibile, pagò, se non basterà ti pagherò al mio ritorno. E le prime tre azioni sono: vedere, fermarsi, toccare, tre azioni che servono anche a noi per ricominciare.

2a. Vedere. Il samaritano vide ed ebbe compassione. Vide le ferite, e si lasciò ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto e Dio naviga in un fiume di lacrime invisibili a chi ha perduto se stesso, il cuore.

Per vedere è necessario aprire gli occhi. Come fa il Signore con Agar nel deserto con il bambino Ismaele che le muore; «Dio le aprì gli occhi» ed ella vide un pozzo d’acqua dove prima c’era solo sabbia (cfr. Gen 21,19), un pozzo che era già lì, ma che lei non riusciva a vedere.

In ebraico occhio si dice ‘ayin, termine che significa anche sorgente. Se apri gli occhi si aprono sorgenti, negli altri e in te. Uno sguardo giudicante paralizza e separa, mentre uno sguardo non giudicante, ma includente, disseppellisce sorgenti negli altri, spighe, luce, talenti, futuro. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona e scoprire, dietro un centimetro quadrato di iride, l’urgenza di una promessa, boccioli gonfi, un desiderio, energia trattenuta, futuro. Uno sguardo liberante.

Una frase illuminante di Matteo dice così: «la lampada del corpo è l’occhio» (Mt 6,22). Noi abbiamo occhi di lucerna, che non solo vedono, ma come lampada gettano luce, irradiano luce, avvolgono di luce le cose che guardano.

Troppo facile chiudere gli occhi, adducendo a pretesto il grigiore della città e dei volti. Lo so una cosa: ogni volta che mi chino a sorprendere germogli, ogni volta che mi succede di navigare per occhi di persone che amo, ogni volta che pianto un seme e spio il gonfiarsi della terra, esco con gli occhi che sorridono (Angelo Casati).

Ermanno Olmi dice che per vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi. Non si possono amare i boschi se li vedi solo come una fabbrica di ossigeno. L’amore nasce da un rapporto diretto, e c’è un solo modo per conoscere il bosco o il prato: inginocchiarsi e guardarlo da vicino.

Forse potremmo continuare all’infinito. C’è un solo modo per conoscere il tuo uomo, la tua donna, Dio, una città, un prato, una pieve: inginocchiarsi e guardarla da vicino. Guardare gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, e non da lontano. Guardare come bambini e ascoltare come innamorati.

Se vedessimo la terra, l’umanità, la nostra casa, ogni creatura con gli occhi che accarezzano in silenzio e illuminano l’altro, senza desiderio e senza violenza, quante cose cambierebbero! Le parole nascerebbero lievi e non di pietra.

Pensiamo al modo con cui Gesù guardava. Johann Baptist Metz, l’ultimo grande teologo del concilio ancora vivente, fa un’osservazione straordinaria: «il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato di una persona, il suo primo sguardo si posa sempre sulla sua povertà e sul suo bisogno». Abbandonare lo sguardo giudicante, che classifica in buoni e cattivi, spezzare lo schema “buoni e cattivi, innocenti e colpevoli” e acquisire lo sguardo includente di Gesù, che non si posa mai sul merito dell’uomo, ma sul bisogno. E lo illumina.

È lo sguardo del padrone del campo nella parabola del buon grano e della zizzania, che mette in scena un conflitto di sguardi (cfr. Mt 13,24-30). Lo sguardo dei servi si fissa sul male, sulla zizzania, vede le erbacce. Lo sguardo del padrone vede il buon grano, illumina la spiga incamminata verso la pienezza. Non strappate via – dice – l’erba cattiva, perché rischiate di strapparmi le spighe. E per me una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo.

La luce conta più del buio, il bene vale più del male. Acquisire questo sguardo, che vede anche le ferite e se ne lascia ferire. E insieme lo sguardo che salva lo stupore: occhi di lucerna che illuminano il bene, il positivo, l’estate profumata di frutti, l’autunno festoso di colori, che intuisce il domani nell’oggi faticoso, che si posa sui talenti. Nessuno solo con le sue ferite, ben sapendo che nessuno coincide con esse.

2b. Fermarsi. Un grande scalatore racconta che durante una salita sull’Himalaya, a un certo punto lo sherpa nepalese che lo accompagnava depone il carico, si ferma e si siede. Allo scalatore che gli chiede il perché risponde: «Mi siedo per aspettare la mia anima, perché è rimasta indietro».

La nostra vita è senza tregua, una corsa, una scalata senza respiro, al punto che spesso l’anima rimane indietro. Che ti giova guadagnare un’alta montagna o il mondo intero, se poi perdi l’anima? Parafrasando il titolo di un libro di Christiane Singer, possiamo chiederei anche noi: dove corri? Non sai che il mondo, non sai che il cielo è in te?

lo ho fatto molto per questo mondo quando sospendo la mia corsa per dire “grazie”. Fermarsi addosso alla vita, vita che è fatta di persone, perché la vita non ha un senso prestabilito, né senso vietato né senso obbligatorio. E se non ha senso, vuoi dire che va in tutti i sensi e che trabocca di senso e tutto inonda.
La vita fa male quando le si vuole imporre un senso, piegarla in una direzione o in un’altra. Se non ha senso, significa che essa è il senso. Come dice Dostoevskij: «ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso».

O come dice san Giovanni nel prologo del suo vangelo: «in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). È una cosa straordinaria: la vita è la luce degli uomini. Vuoi luce? Fermati e guarda la vita.
A noi spetta assecondare la sua creazione. Come una nave che non è in ansia per la rotta da seguire, perché sappiamo di avere su di noi il vento di Dio. La vita si rivela solo a coloro i cui sensi sono vigilanti e che si spingono in avanti, come felini tesi in agguato verso il minimo segnale. Tutto sulla terra ci interpella, ci chiama, ma così lievemente che passiamo mille volte senza vedere alcunché. Noi camminiamo su gioielli senza notarli.

2c. Toccare. Ci sono di aiuto alla riflessione due episodi narrati nel vangelo.

All’inizio del racconto di Marco, Gesù incontra un lebbroso, che gli grida di aiutarlo. Davanti al lebbroso, al contagioso, all’impuro, al rifiutato, un cadavere che cammina, che non si deve toccare, cacciato fuori, uno scarto, e che chiede da lontano di essere guarito, Gesù prova compassione (Mc 1,41). Il testo greco usa il participio aoristo passivo del verbo splanchnfzo, la cui traduzione letterale potrebbe essere: sentì subito un crampo nel ventre, un morso nelle viscere, uno spasmo, una ribellione che dice: no, non voglio, non deve essere punito. E allora che fa? Si ferma. E poi?
Lo tocca. Tocca l’intoccabile. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca.

È parola dura per noi, per me. Ci mette alla prova. Non è spontaneo toccare il contagioso, l’infettivo. Lasci cadere la moneta dall’alto nella mano del povero, attento a non toccarlo, perché non è tanto pulito, fai un gesto senza coinvolgimento di viscere.

Trovare l’anima, ritrovare se stessi è un fatto di grembo e di tatto. Di grembo e di mani. Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico e lo riempie, è un modo di amare. Il tatto è il modo più intimo, è il bacio! Gesù tocca il lebbroso, e toccando ama, e amando lo guarisce.

La seconda scena è ambientata a Naim (cfr. Lc 7,11- 17). Gesù incrocia il corteo funebre che porta alla tomba l’unico figlio di una madre vedova che piange, piange come può fare solo chi è folgorato dal dolore più atroce. Gesù la vede, la vede piangere e subito prova compassione, sente questo crampo nel ventre, un groppo allo stomaco (esplanchnfsthe). La compassione è quando fa piaga nel cuore il dolore dell’altro. Gesù davanti al dolore ha questa reazione: prima di tutto prova dolore per il dolore dell’uomo. E poi si ferma, non tira via, non passa oltre magari dicendo, come capita a noi: non disturbiamola nel suo dolore. Lui vede, si commuove, si ferma, e la sua prima parola è: «Non piangere!». Che bello il nostro Dio!
L’abbiamo scelto per questo! Per usare un ossimoro: l’abbiamo scelto per la sua umanità che gli causa dolore, un morso, un’unghiata, un graffio nel cuore davanti a quella madre.

E poi tocca. Viola la legge, fa ciò che non si può: prende il ragazzo morto, lo rialza e lo dà a sua madre, in un atto di nascita. Gesù partorisce. Perché la misericordia è tutto ciò che è essenziale alla vita, la compassione è ciò che ci fa ritrovare la nostra anima rimasta indietro.

Se c’è una malattia che Gesù teme più di tutte, che combatte più di tutte, è la durezza di cuore, la sklerokardfa, l’impietrimento del cuore, l’incapacità di sentire il morso delle viscere. Il rischio più grande è quello di diventare analfabeti del cuore, di essere burocrati delle regole, funzionari delle norme e analfabeti del cuore di Dio e del cuore dell’uomo.

Le prime tre azioni per ritrovare se stessi sono, dunque, vedere con compassione, fermarsi e toccare.
Perché ritrovare se stessi è ritrovare il proprio cuore e ritrovare gli altri. Per noi esistere è coesistere.

La velocità produce cecità, e la cecità produce durezza di cuore. La cecità e la velocità creano gli invisibili, i tanti invisibili delle nostre città, quelli a cui passiamo accanto e che neppure vediamo.

Lo sguardo spento produce buio, e poi innesca un’operazione ancor più devastante: rischia di trasformare gli invisibili in colpevoli, di trasformare le vittime come ad esempio i profughi, i migranti, i poveri con il loro assedio che non si placa in colpevoli e in causa di problemi.

Così accade se non vedi, non ti fermi, non tocchi. Le persone sono declassate a problema, anziché diventare fessure di infinito.

OGNI GIORNO ABBRACCIARE L’INFINITO

lo adotto un mio piccolo metodo per lasciarmi abbracciare dall’infinito: di tanto in tanto, fare la creatura. Noi, plasmati dal mito dell’homo faber – dell’uomo che deve fare, produrre, creare, inventare, lavorare, tornare a essere non il vasaio, ma il vaso, l’argilla: creatura fra le creature. Invece di essere sempre autori e vittime di una vita di scopi da raggiungere, tornare come bambini.
Una bella metafora di Martin Heidegger dice che l’uomo è come un’isola. La mia vita è come un’isola, io la percorro tutta, la spiaggia, i promontori, le insenature, e quando ho terminato il periplo dell’isola e torno al punto di partenza, mi accorgo di una cosa:
che là dove finisce l’isola comincia l’oceano. Che il confine dell’isola è l’inizio dell’infinito, che il confine dell’uomo è Dio. Che tu confini con Dio, tu isola nell’oceano.

In un testo di due teologi australiani, Edwards ed Elizabeth Iohnson, ho trovato un passo magnifico che mi aiuta a capire il mio sentirmi creatura.

«Noi siamo una forma di vita basata sul carbonio. Le molecole dei nostri corpi sono composte di atomi di carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto, con piccole quantità di altri elementi. Mentre gli atomi di idrogeno provengono dall’universo iniziale, il carbonio, l’ossigeno e l’azoto provengono tutti dalle stelle».

Non lo sapevo! La storia delle stelle è una parte centrale della storia di ogni uomo.

«Una stella è una fornace termonucleare nella quale l’idrogeno si converte in elio. Quando l’idrogeno si è esaurito, ulteriori reazioni nucleari possono trasformare l’elio in materiali più pesanti, tra i quali il carbonio, l’azoto e l’ossigeno dai quali noi siamo costituiti. Le stelle molto grandi finiscono nelle esplosioni di supernova che producono gli elementi più pesanti, disseminando il vicino universo di elementi utili per la formazione di altre stelle e dei loro pianeti.

Ci vogliono dieci miliardi di anni di combustione stellare per produrre il carbonio e gli altri elementi di cui siamo costituiti. Sono state necessarie da due a tre generazioni di stelle per provvedere gli elementi chimici per i delfini, per i koala e gli esseri umani».

Ogni atomo di carbonio presente nel sangue che scorre nelle mie vene proviene da una stella!

«Noi siamo radicalmente in relazione con tutto l’universo. Un atomo di carbonio in una cellula del cervello umano ha un pedigree che risale indietro a prima della nascita del sistema solare, quattro miliardi e cinquecento milioni di anni fa. Gli atomi ora riuniti in una singola stringa del DNA umano sarebbero stati disseminati, miliardi di anni fa, in differenti stelle sparse in tutta la galassia e nello spazio interstellare. La materia prima della vita arrivò sulla terra in minuscoli granelli, grazie alle collisioni delle comete col nostro pianeta».

Leggiamo in Genesi che Dio plasmò l’uomo non con la creta, ma con polvere del suolo, con polvere cosmica! Siamo un impasto di polvere cosmica e di fiato divino.

Quando mi sento creatura in questo modo, quando sento di condividere con tutte le altre creature viventi un patrimonio genetico che risale agli organismi primordiali dei mari antichi, allora capisco che batteri, pini, mirtilli, castagni, cavalli, le balene grigie, tutti nella grande comunità della vita siamo parenti.

Ciò fa degli esseri umani i cantori dell’universo e i custodi dell’universo: capaci di cantare le lodi e di rendere grazie a nome dell’intera comunità cosmica di cui facciamo parte (Abraham loshua Heschel). Tutto questo ci rende distinti, ma non separati. La mia piccola pepita di tempo storico concentra in sé l’impresa impetuosa in corso nella natura stessa. Siamo tutti interconnessi nell’unica storia dell’universo e siamo tutti fatti di polvere di stelle e di respiro divino. In noi l’infinito ci abbraccia.

Dobbiamo prenderne consapevolezza per abbracciare a nostra volta l’infinito. «Non esiste materia», scrive Niels Bohr, «vi è solo un tessuto di relazioni».

Siamo creature: la stessa parola “creatura” conserva nella sua etimologia una sfumatura di futuro, di progetto, in analogia a termini come nascituro, morituro, venturo. Siamo coloro che non hanno finito di essere creati, che sono ancora nelle mani di Dio, che non hanno mai finito di nascere, che vengono dal futuro ancor più che dal passato. Con l’esterno e l’interno che confinano tra loro, il finito e l’infinito: con l’eterno che si insinua nell’istante e l’istante che fiorisce nell’eterno.

Stiamo sempre nascendo, siamo sempre nella preistoria di noi stessi. L’uomo non è tanto un essere mortale, ma ancor più è un essere “natale”. Dobbiamo essere indulgenti con il nostro lungo nascimento che è la vita. Maria Zambrano afferma: «Noi nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve a nascere del tutto».

Un secondo passo per abbracciare l’infinito – perché c’è un altro infinito in me -, per ritrovare quel respiro, quel pezzetto di Dio che è in me, è la preghiera. Penso alle sei anfore di pietra, collocate all’ingresso della casa degli sposi a Canaa di Galilea. Molte volte mi sento così, anfora vuota, vaso rotto che ha perduto la sua acqua. La nostra vita si disidrata così facilmente.

Come fare per nutrirla di nuovo?

Quando mi sento così, mi\ metto a pregare seguendo un’immagine: vedo me stesso come una delle sei anfore di Cana, come un vaso che ha perduto la sua acqua, ma che ora una mano mette sotto il getto della fontana, della sorgente che è Cristo.

Una sorgente che non verrà mai meno, che è sempre disponibile, che non si esaurisce, che mi riempie. E dandomi se stesso, Dio mi da tutto: pace, luce, gioia, coraggio, sogni.

E forse quando la nostra anfora, incrinata o spezzata, non è più in grado di contenere l’acqua, Dio proprio quei cocci che a noi paiono inutili, invece che buttarli via, li ripara – misericordia è l’arte di riparare – oppure li dispone in modo diverso, crea un canale, in modo che servano ancora, perché attraverso di essi l’acqua sia libera di scorrere verso altre bocche, altre seti. «Dio può riprendere le minime cose di questo mondo senza romperle, meglio ancora, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» (Fabrice Hadjadj), attraverso cui l’acqua arrivi e poi scorra, il vino scenda e poi scorra e raggiunga i commensali, le persone che lui ha posto a sedere alla tavola della mia vita.

Amo le preghiere brevi, non quelle lunghe. Mi sono sempre sentito in colpa davanti alle preghiere lunghe, perché mi pesano. Questo senso di colpa mi è durato fino a che ho letto una massima di un padre del deserto, Evagrio Pontico: «non compiacerti del numero dei salmi che dici. Vale di più una sola parola nell’intimità che mille stando lontano».

Non la quantità delle parole, del tempo nella preghiera, ma l’intimità anche di un solo istante. Allora guardo la mia vita, la mia giornata, e mi accorgo che ogni giorno Dio stesso si incarica di seminare piccoli semi di preghiera in me: un pensiero buono, un brivido di gioia, uno sguardo a una persona, a un crocifisso sulla parete, una gentilezza inattesa da uno sconosciuto, la bellezza del creato o l’eco di un canto, il silenzio di una notte d’inverno … Tutte piccolissime cose, a cui basta poco per rispondere: un battito del cuore, un brivido, un pensiero, una carezza nell’intimità con Dio.

L’esortazione paolina «pregate ininterrottamente» (TTs 5,17) può essere messa in pratica non nell’estensione, ma solo nell’intensità. Se rispondi, si aprono brecce nel cielo, finestre di luce, che forse si richiudono presto, ma intanto hai respirato mistero.

Amo le preghiere brevi, le formule lampeggianti come lucciole nella notte, come un morso di luce sul cuore.
Preghiere leggere come fili di seta che lancio oltre il muro; non possenti come una fune su cui arrampicarmi, ma leggere e così numerose da creare come un tappeto su cui sento posarsi lieve il piede di Dio.

Per abbracciare l’infinito – oltre al sentirsi creatura e al metodo delle preghiere brevi come lucciole nella notte – c’è poi la strada della poesia, la via della bellezza.
Scrive con parole magiche padre David Maria Turoldo: «un solo verso, / fessura sull’infinito come / il costato aperto di Cristo -, anche / un solo verso può fare / “più grande l’universo”».

Come contrappunto per le risonanze del cuore, la seguente lirica giovanile di Alda Merini, forse la sua prima, scritta probabilmente a 17 anni, esprime bene l’anelito ad abbracciare l’infinito.

Bisogna essere santi per essere anche poeti:
dal grembo caldo d’ogni nostro gesto,
d’ogni nostra parola che sia sobria,
procederà la lirica perfetta

in modo necessario ed istintivo.
Noi ci perdiamo, a volte,

ed affanniamo per i vicoli ciechi del cervello,
sbriciolati in miriadi di esseri

senza vita durevole e completa;

noi ci perdiamo, a volte,

nel peccato della disconoscenza di noi stessi.
Ma con un gesto calmo della mano,

con un guardar “volutemente” buono,

noi ci possiamo sempre ricondurre

sulla strada maestra che lasciammo,

e nulla è più fecondo e più stupendo

di questo tempo di conciliazione.

IN DIALOGO CON PADRE ERMES

Una volta hai posto una domanda su questo tempo di crisi a un maestro come Raimon Panikkar. E lui ti ha risposto: «La più grave epidemia del mondo contemporaneo è la superficialità». La superficialità è davvero qualcosa da combattere per ricominciare?

La superficialità, che è frutto dell’omologazione, vuoi dire vivere di pelle, di immediato, di cose che non durano … Per vincere la superficialità la strada maestra è quella delle domande.

Se leggiamo il vangelo anche solo seguendo le domande di Gesù, come un filo rosso, troviamo che la prima è: «Che cosa cercate?», che significa: perché siete qui? Qual è il vostro desiderio profondo?

Da questa domanda non si può e non si deve scappare. Le domande ti aiutano ad andare alla ricerca di te stesso, per sapere chi davvero sei. Noi non siamo i nostri pensieri: quanti pensieri strampalati, quante idee abbiamo cambiato nel corso della vita! Non siamo neppure la nostra volontà, così fragile, e neppure le nostre emozioni, che come una tavolozza vanno dai colori più oscuri a quelli più luminosi.

Non siamo i nostri pensieri, la nostra volontà, le nostre emozioni. C’è in noi un io più profondo, che tutte le religioni hanno sempre chiamato “cuore”. Il ritorno al cuore è il grande percorso. Il cuore non è la sede dei sentimenti, ma il luogo delle infinite nascite, il tempio del silenzio, il luogo dove si decide chi siederà sul trono della nostra vita.

A proposito della superficialità, mi viene in mente un’immagine molto bella di Teresa d’Avila: noi siamo un castello, un castello assediato da molti nemici, da soldati di ventura, da avversari che fanno rumore, che scagliano frecce … ma questi nemici non entreranno mai nel mio castello se non sono io ad aprire loro la porta.
Le cose esterne fanno rumore e danno fastidio, ma sono fuori, e soltanto io posso aprire la porta e dire a uno: sì, tu entra e occupa spazio in me, e a un altro invece: no, tu resta fuori, so che mi farai un po’ di male e graffierai sulla mia vita, ma tu non siederai sul trono del mio cuore.

Anche la pazienza è un concetto importante, forse da capire di più, perché non va confusa con la rassegnazione. Come coltivare la nostra pazienza? E al contrario: quanto, a volte, dobbiamo essere impazienti? 

Penso che occorra avere pazienza innanzitutto verso noi stessi, perché siamo creature, perché siamo modellati continuamente, perché stiamo sempre nascendo.
Papa Francesco ha indetto l’anno della misericordia, ma la misericordia va prima di tutto vissuta verso se stessi. Sono io il primo oggetto della misericordia, e avere misericordia con se stessi significa avere la pazienza di progettare, di iniziare percorsi, di compiere un passo, di non avere la soluzione per tutto e subito, piuttosto la certezza di seguire una stella polare, che indica una direzione, un approdo, una forza lungo la via. Queste tre cose mi bastano: una direzione, un approdo di cui sono certo, una forza alla quale posso attingere. Allora sii indulgente con tutti, ma anche verso te stesso. Quante volte ci costruiamo dei patiboli interiori sui quali trasciniamo noi stessi. Ci trasciniamo dietro il nostro passato: errori, sbagli, mancanze, peccati … come pati-boli per noi stessi e per gli altri, per anni e anni, senza slancio di futuro.

Dicevano i padri del deserto: «Non appesantirti del tuo peccato, perché continueresti a mettere al centro te stesso». Saresti sempre tu il centro della vita, mentre il centro della vita non è ciò che io faccio per Dio ma ciò che Dio fa per me. La salvezza non è che io ami, ma che lui mi ama. Perché Dio non si merita, si accoglie. Ci vuole la pazienza di accoglierlo, non l’impazienza di meritarlo.  

Ermes Ronchi

Hai detto: «sospendo la mia corsa per dire grazie». In quel “sospendo” c’è una sospensione del tempo, una capacità di riappropriarsi del proprio tempo. Nella nostra vita si perde il senso del tempo e delle priorità. Come si ricomincia rispetto al tempo nella nostra vita?

Comincerei con una citazione di papa Francesco: «lo spazio conta più del tempo». Se tu compi un passo in avanti nella tua vita, non conta quanto tempo è passato. Lo spazio, la conquista di un passo in avanti, è più importante del tempo che ci hai messo per farlo.
Sospendere la corsa. Conosco un trucco, che mi ha insegnato un mistico svizzero, Maurice Zundel, che in confessionale assegnava questa penitenza: va’ per un quarto d’ora a contemplare il tramonto. E i penitenti rispondevano: ma padre, con tutto quello che abbiamo da fare!

Ho provato a dare la stessa penitenza a Milano, ma non funziona, perché mi dicono: ma dove vado per poter vedere il tramonto?

L’idea però resta valida: fermati per un momento, per un quarto d’ora, a contemplare un tramonto. Noi, anche se vediamo un arcobaleno, dopo un minuto non lo guardiamo più.

Fermati a contemplare. Contemplare vuoi dire che non sei tu il centro dell’universo, vuoi dire entrare in un circuito, in un respiro diverso, entrare in modalità diverse del vivere, dove tu ti senti ospite, vivi di ospitalità cosmica, dove ritrovi il confine dell’infinito sulla tua pelle. D’estate, quando vado a fare qualche giorno di vacanza sull’isola di Patmos, l’isola dell’Apocalisse, tutte le sere mi fermo a guardare il tramonto (a volte, confesso, con in mano un fresco mojito). È quello il momento in cui ritrovo un altro rapporto con il tempo, che poi cerco di trasportare nel resto della mia vita, anche se l’agenda, purtroppo, è una “suocera brontolona”.

Padre Aldo Lazzarin, quand’era vescovo missionario in Cile, mi ha insegnato un’altra cosa. La gente lo fermava per la strada e gli chiedeva: «Padre, mi può ricevere?». E lui: «Sì, certo, venga domani». E così a tutti. Sorpreso, gli ho domandato: «Ma, padre, non guardi l’agenda?». Ho ancora nel cuore la sua risposta luminosa: «Prima la gente, poi l’agenda».

È la gente che ci porta a gustare, a capire il tempo. Il tempo perso nella relazione è tempo moltiplicato. Fermarsi, dunque, a contemplare il tramonto o qualsiasi altra cosa; e le persone: se tu navighi per gli occhi delle persone, vedrai che il tempo fiorisce di eternità.

Ermes Ronchi

Nel tuo libro “Basta che un uomo solo sogni” prendi in esame nove verbi. Mi sembra che tutti abbiano a che vedere con il tema del ricominciare. Questo libro lo hai scritto con Marina Marcolini, per cui vorrei innanzitutto chiederti: esiste in questo cammino un punto di vista specifico femminile?

Questa è una domanda a cui dovrebbe rispondere Marina … Ma una cosa posso dire: il maschile e il femminile hanno certamente bisogno di ritrovarsi.

Credo che ci sia uno spreco di bellezza, di energia, di intelligenza, uno spreco di cuore, per l’incapacità di coinvolgere nel cammino della chiesa tutto il potenziale femminile.

Uno spreco di intelligenza e di cuore che dovrebbe essere sanato in fretta. Che differenza se il prete dicesse: tu mi devi aiutare a fare un cammino insieme, tu devi fecondare con la femminilità il mio modo di intendere e di vedere le cose!

C’è bisogno di un duplice punto di vista, di un duplice accostamento alla realtà. Allora davvero gli occhi diventerebbero più luminosi, il cuore diventerebbe più pronto. Noi abbiamo una riserva di energie, di talenti, di bellezze che rischiamo di sprecare, ma lo specifico del femminile non tocca a me indicarlo … dovremmo chiederlo alle tante donne che oggi sono qui presenti …

Ermes Ronchi

Proviamo a toccare alcuni di questi nove verbi. Ad esempio “coltivare”. Citi una bellissima frase del poeta Rilke: «ti ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare». Coltivare è anche un verbo che ha molto a che fare con la pazienza, con la pazienza dei contadini. Come si coltiva il meglio delle persone?

Il meglio delle persone si coltiva guardandole con lo sguardo “volutamente” buono, come dice Alda Merini nella sua poesia (le virgolette sono sue). Non si coltiva dando uno sguardo generale, complessivo.

Coltivare la persona significa scoprire il bocciolo che sta per fiorire, la piccola spiga di buon grano, il germoglio che nasce. Avere occhi che intuiscono nella persona che hai accanto le sue potenzialità.

«Ti ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare». Ma il meglio di te in che cosa consiste? Questo è decisivo!

Guardare nella persona cercando in lei il meglio possibile. Non si tratta di un procedimento scientifico, neppure di tipo psicoanalitico. Guardare come fa Gesù. Pensiamo alla donna colta in adulterio e portata davanti a lui perché deve essere uccisa; lui non le chiede neanche se è pentita, non le chiede di esprimere rimorso, non le chiede neppure la promessa di non peccare mai più. Dice una semplice frase di sei parole che bastano a cambiare una vita: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (cfr. Gv 8,1-11).

«Va’ e d’ora in avanti»: io credo che il meglio di ogni persona sia «d’ora in avanti»: noi siamo creature che stanno continuamente nascendo. Il passato non conta, il passato è finito, non è a nostra disposizione. Quello che conta è il «d’ora in avanti». Dio viene dall’avvenire, il signore del passato è il diavolo. Questo ci aiuta a tirar fuori il meglio da ciascuno.
“Coltivare” è il primo verbo affidato ad Adamo: «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).

Il verbo utilizzato ha la stessa radice di quello utilizzato per il culto nel tempio. Così vediamo che la prima preghiera di Adamo è la coltivazione del suolo, del giardino. La coltivazione è il culto primo che l’uomo/Adamo rende a Dio. Culto e coltivazione sono la stessa cosa.

Ciascuno di noi, davanti alle persone che ci sono affidate, è come un contadino paziente, come un contadino che ha speranza, che sa che il germe sotto la terra sta lavorando con il suo misterioso procedimento.
La speranza viene dalla forza buona del seme, non dall’abilità del seminatore. lo ho la pazienza di coltivare non perché mi fido della bravura delle mie mani, ma perché so che il seme che metto è buono. E questo seme farà la sua strada: misteriosa e vincente. Anche se io non so di quanta esposizione al sole di Dio abbia bisogno per maturare.

Ermes Ronchi

Ti chiedo una riflessione sul verbo “sognare”, che in quel libro non è l’ultimo, ma il primo.

Sognare vuoi dire riuscire a vedere la realtà non per come si presenta, ma per ciò che può diventare. Sognare la giustizia vuoi dire avere fame e sete di relazioni giuste, non vedere semplicemente ciò che oggi riusciamo a intessere, ma intravedere una trama, un ordito di ciò che può diventare.

Nel libro cito una poesia di Manuel Scorza che dice così: «Basta che un uomo sogni, I perché un’intera razza puzzi di farfalle. I Basta che uno solo dica di aver visto l’arcobaleno di notte, I perché anche il fango abbia gli occhi rilucenti».

Vuoi dire che c’è assoluto bisogno di dire quello che affermava Martin Luther King nel suo più famoso discorso: «lo ho un sogno …». E il suo sogno era che bianchi e neri insieme potessero camminare verso un futuro di libertà e giustizia.

Avere un sogno vuoi dire avere un futuro, un fuoco. Lasciar perdere i sogni è adorare la cenere e non coltivare il fuoco.

Anche nella Bibbia troviamo l’umile via dei sogni: Giuseppe, l’uomo dalle mani callose, sogna cinque volte nel vangelo di Matteo. Bisogna unire insieme come Giuseppe – le mani callose e i sogni, l’operatività, la capacità di lavorare, il porre mano alle cose, e un cuore acceso, immettendo nelle cose un progetto più alto dell’oggi, del presente. Nessun uomo coincide con i semplici accadimenti della sua vita, semmai con i suoi ideali, con i suoi progetti; un uomo non è ciò che ha potuto realizzare, ma ciò che sta sognando in questo momento.

Gesù perdona perché vede primavere nei nostri inverni, vede profezia di pane nel campo delle nostre vite abitato da erbacce. Per questo siamo perdonati: per il sogno di Dio.

Ermes Ronchi

Siamo al momento di salutarci. Ci piacerebbe che tu concludessi con un pensiero su questa giornata vissuta insieme, qui a Romena, sul significato di questo ritrovarci qui, ancora una volta …

È molto semplice. Quando vengo a Romena, vengo per ascoltare. Qui si viene per ricevere. Qui c’è un sapore, un gusto. Non c’è solo la bellezza dei luoghi, della stagione, ma la bellezza dei volti, della ricerca.
Questo è un luogo di autenticità, dove c’è il sapore del sale che rende saporose tutte le cose.

Quando vengo a Romena percepisco un piccolo miracolo, quello del lievito, che non è un pizzico soltanto, ma una quantità grande.

E voi, non solo le singole persone che qui lavorano, ma tutti voi mi trasmettete questo sapore di lievito e di sale di cui oggi c’è tanto bisogno in una società e in una chiesa che stanno cambiando, in sogni che stanno avverandosi, in cose che sembravano lontanissime e che noi abbiamo anticipato, perché l’unica violenza che ci è permessa è quella di “forzare l’aurora”.

Questo è uno dei posti dove si forza l’aurora della Chiesa, del futuro, del mondo.