Don Divo Barsotti e la santità

18.11.2016 16:44

Filmati   :   Don Divo Barsotti    

Presentazione vita Don Divo  di Padre Serafino Tognetti 

Tratti della spiritualità di Don Divo   di Padre Serafino Tognetti    

Sermoni di Don Divo Barsotti  : 

 Don Barsotti - La Comunità dei figli di Dio 

Don Barsotti La Bellezza nell'Amore di Dio    

Don Barsotti Venezia 1986 Prima meditazione    

 

Divo Barsotti

 

La bellezza, dunque, non è mai in Barsotti un concetto astratto, un argomento da salotto culturale. Su cui sdottoreggiare da una cattedra o sopra un palco, nei libri o nei convegni. O da cinguettare pavidamente al ribasso per rispetto umano, mimetizzati fra i mercanti del tempio, magari in effimeri coni di luce davanti a qualche telecamera della Chiesa Catodica. La bellezza è Dio stesso. Che si comunica senza far chiasso, nel silenzio. E si rivela: nella creazione, nel Verbo incarnato per amore nel seno della Vergine, nei Santi, nella Chiesa, nella Scrittura, nella liturgia, nell’Eucaristia e negli altri sacramenti… Per chi sa guardare con gli occhi della fede, tutto è segno. Così come deve esserlo il cristiano. Che è chiamato a essere santo, a vivere la santità. Perché, come afferma il cardinale Carlo Caffarra: «L’unica, vera permanente riforma del mondo è la santità»

Quando parliamo di Santi, specie in tempi come i nostri, molti pensano forse a qualcosa di etereo, lontano dalla realtà. Ma il Santo non è colui che evade dal reale, bensì colui che vi dimora in un punto all’apparenza marginale e che invece ne costituisce il centro vitale profondo, intimo e nascosto: il cuore. Dove tutto viene assunto per essere portato a Dio. È Lui la realtà vera, in cui ogni altra, compresa la nostra, è contenuta. I Santi non sono, quindi, persone fuori dalla realtà: al contrario, la abitano all’interno, nel cuore appunto desideroso di «abbracciare tutto l’universo», di «assumere tutto». La vita contemplativa per Barsotti è infatti un «trascendere il mondo» e allo stesso tempo portarlo «dentro di sé». Il contemplativo deve cioè, come si legge nel Vademecum della Comunità dei figli di Dio, «tendere a Dio trascinando con sé tutto il mondo umano in cui egli vive. La solitudine dell’anima contemplativa è il seno di Dio in cui tu devi portare l’universo». I contemplativi non sono, dunque, esseri astratti. Così come i Santi non sono modelli lontani e irraggiungibili. I Santi sono, semplicemente, coloro che seguono Cristo. Fino in fondo. Fedeli alla Chiesa e al Papa. Sono quelli che – nonostante le loro debolezze e anzi proprio a causa di esse, per la consapevolezza del proprio nulla – sanno di aver bisogno di essere convertiti e rialzati, guariti e salvati da Lui, ogni giorno. Per questo lo seguono lungo il cammino. Lungo la via che è Cristo stesso. «La via è Cristo», scrive san Tommaso d’Aquino. che camminare a forte andatura fuori strada. Chi zoppica sulla strada, anche se avanza poco, si avvicina tuttavia al termine. Chi invece cammina fuori strada, quanto più velocemente corre, tanto più si allontana dalla meta. […] Segui dunque Cristo se vuoi essere sicuro. Non potrai smarrirti, perché egli è la via. Il Signore, realmente presente nell’Eucaristia, nella Chiesa, ci aspetta: mendica il nostro sì. Egli, che ha dato la sua vita per ciascuno di noi, ancora ci offre se stesso. Affinché lo conosciamo e lo amiamo. Perché, come osserva Barsotti, «quanto più lo conosciamo, tanto più ci attrae la Sua bellezza ci attrae il Suo amore». E ci invita a seguirlo, dietro a Maria. «Il cammino che porta a Dio è silenzio e umiltà». «Tutta la vita è cammino», assicura ancora Barsotti. Anche la santità cristiana è «un cammino senza fine. Il cammino è Dio». E se arrivassimo a 999 anni, ancor molto mancherebbe a raggiungere Dio. Si raggiunge Dio se siamo in cammino, non se crediamo di averlo raggiunto già. Nel tempo non possiamo mai raggiungerlo; perciò importa il camminare e la cosa più grave nella vita spirituale è il fermarsi. […] la vita cristiana è un cammino che ha per termine Dio. Si raggiunge Dio soltanto se siamo in cammino. È la disposizione dell’anima che vive un continuo trascendimento verso il Signore. Solo in questo atteggiamento ci si salva. Dio, nostra meta, lo si raggiunge soltanto se così vuole il nostro desiderio, in un atto di amore che ci conduce in una conversione perenne. E la preghiera, ci ricorda sant’Agostino, è desiderio. Se la santità è essere in comunione con Dio, essere in Cristo, il vertice di questa esperienza per il cristiano è l’Eucaristia, il pane vivo che ci sostiene lungo il pellegrinaggio terreno: «Nulla è più grande per l’uomo che il mistero eucaristico». La presenza di Cristo nell’Eucaristia è considerata da Barsotti «la più alta esperienza che l’uomo ha del mondo di Dio», perché «la realtà eucaristica è partecipazione alla realtà stessa del mondo divino». Ma tutto questo può essere sperimentato solo nella fede. Quel che ci manca davvero, oggi, è la fede. E se uno non ce l’ha, preghi, elevi al Signore il suo «incessante grido di aiuto»: pregare è decisivo per chiunque ed è «il lavoro del cristiano». Preghi Gesù, preghi Maria (oh, quale inimmaginabile potere ha l’intercessione della Vergine sul Figlio! Soprattutto per mezzo del Rosario!). Se pregherà sinceramente, col cuore più che con le labbra, con umiltà, fiducia e perseveranza, Dio non mancherà di donargliela. Perché Dio vuole salvarci. Perché con la fede tutto si salva, senza la fede tutto si perde. A un intervistatore che gli chiede quale sia la cosa più importante nella vita di un uomo, padre Barsotti risponde, lapidario: «La fede». Dice in proposito don Divo, col suo linguaggio intriso di parresia e schiettezza toscana: Se c’è la fede, tutto nasce da lì: ecco, Dio non è più un Dio di carta, è il Dio vivente! Lo conosci, ma lo conosci in quanto è una Persona, non lo conosci perché sai il catechismo, non lo conosci perché conosci la teologia, lo conosci perché l’hai veduto, perché Egli è entrato nella tua vita, perché Egli si è manifestato a te, e perché la manifestazione di Dio alla tua anima ha voluto dire per la tua anima un desiderio incoercibile di essere unita a Lui e, nello stesso tempo, una grande paura per il senso della tua debolezza, per il senso della tua impotenza, della tua povertà spirituale. Conoscenza di fede che è molto maggiore, molto più importante di una conoscenza teologica. Un teologo può parlare della Santissima Trinità fumando una sigaretta, ed è una cosa spaventosa, se si pensa bene, ma lo può fare perché Dio è un Dio un po’ di carta, un Dio con il quale si ragiona facilmente: è un Dio senza potenza, che non ha alcuna forza nella tua vita interiore. Perché? Perché la fede è poca, la fede è poca! Una persona, una donna, una semplice donna, magari analfabeta, che non conosce altro magari che un po’ di catechismo può vivere una unione con Dio, può vivere una fede più viva, anche dei teologi. Senza dubbio santa Teresa, o santa Gemma Galgani avevano più fede del vescovo della loro diocesi. Pensiamo santa Gemma Galgani e il vescovo di Lucca del tempo. È impressionante la differenza che vi è fra un vescovo buono ma mediocre, e questa anima che è totalmente presa dall’amore del Cristo, che non vede altro che Lui, che non pensa altro che a Lui, che vive una vita in cui veramente viene consumata dall’amore. Certamente la fede di santa Gemma era molto più grande della fede del suo vescovo, anche se il vescovo era vescovo e Gemma Galgani era una povera scema, come lei si firmava. Quello che conta nella vita religiosa, dunque, è la fede perché la fede è l’organo che ci mette in comunione con Dio. Vorrei sapere: è lo stesso guardare una fotografia della montagna o scalare la montagna? Vi sembra la stessa cosa? Vediamo, vi sembra davvero la stessa cosa? Non credo davvero, ebbene quelli che vivono, che parlano anche di Dio possono essere come quelli che guardano una fotografia. Altro è guardare la fotografia, altro è scalare la montagna, altro è vivere un contatto vero con Dio. Guardate bene che la fede vi deve mantenere in un contatto reale con una persona vivente. Dio è, Dio esiste, Dio è qui!  Da Massimo Corsinovi «Nella divina Presenza»

 

Don Divo Barsotti di fronte al Concilio del XX secolo

  di Cristina Siccardi

Nel fervido e provvidenziale dibattito in corso sul Concilio Vaticano II giunge a proposito la bella e chiara biografia scritta da padre Serafino Tognetti, Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre (San Paolo, pp. 405, € 29.00), utile strumento per comprendere da vicino la figura di un monaco che ha vissuto intensamente le aspettative e le cocenti delusioni di un evento che ha rivoluzionato l’operatività della Chiesa in maniera così profonda da alterare la trasmissione della Fede.
   Quando venne annunciata l’apertura del Concilio Vaticano II (25 gennaio 1959), furono in molti a riporre grandi speranze nell’evento e fra questi il monaco don Divo Barsotti (1914-2006). Prima del Concilio stesso don Divo ebbe più volte modo di manifestare una certa insofferenza nei confronti di alcuni metodi della Chiesa, che considerava chiusi e rigidi.
Scrive padre Tognetti
   «Il momento dell’apertura del Concilio ci rivela un duplice atteggiamento da parte di don Barsotti. Da una parte egli presentava l’evento conciliare ormai imminente come “un’occasione, forse la più grande che Dio abbia concesso all’umanità di oggi, per essere salvata”; dall’altra parte il Concilio potrebbe però rivelarsi “un’occasione per cui questa umanità, invece di essere salvata, potrebbe precipitare nel buio, nella tenebra, non dico in un’apostasia dichiarata, ma in uno scetticismo, in una tensione, in una disperazione che non potrebbe essere più lenita da una speranza che le venga da Cristo, che le venga dalla Chiesa, che è del Cristo la continuatrice, anzi la stessa presenza”. Questo timore di don Divo era motivato dalla percezione di un pericolo che egli scorse nascosto sotto i facili entusiasmi di molti: “Il pericolo di un Concilio che lascia le cose come le trova, anzi le peggiora. Perché ogni grazia di Dio è per sé ambigua: se l’anima non la riceve e non la fa fruttificare, quella grazia si trasforma per te in un motivo maggiore di condanna, di rovina e di morte”».

   Barsotti seguì con attenzione, apprensione e soprattutto con la preghiera lo svolgimento dei lavori conciliari. Condusse la Comunità dei Figli di Dio, da lui fondata nel 1947, a meditare i diversi documenti prodotti durante l’Assise. Una delle tematiche che maggiormente lo interessò e lo preoccupò fu quella relativa alla riforma liturgica:

   «Il primo errore che dobbiamo evitare è pensare che la riforma liturgica abbia un carattere essenzialmente e primariamente pastorale. Oltre tutto, questo non potrebbe mai essere nella Liturgia. Ha anche un carattere pastorale, indubbiamente, ma prima ancora è preghiera. La prima cosa che si impone per me, se io voglio essere ministro della preghiera liturgica, è che io preghi e faccia pregare gli altri. […]. La preghiera liturgica dunque ci forma alla preghiera e forma il popolo alla preghiera soltanto in quanto fa pregare; se non facesse pregare, non formerebbe né alla Liturgia né alla preghiera. Ed ecco una cosa importante allora che dobbiamo evitare, che cioè queste riforme siano fatte come una “prima di teatro”, come uno spettacolo».

   Non passò molto tempo che gli auspici di una benefica rivitalità della Chiesa, promessa dal Concilio, si trasformò, invece, in un’acuta e dolorosa amarezza. Il monaco nato a Palaia (Pisa), ordinato sacerdote nel duomo di San Miniato il 18 luglio 1937, sentì in tutte le sue fibre la drammaticità della crisi della Chiesa sorta negli anni postconciliari. Percepì da vicino e con sgomento il clima di banalizzazione in cui era stato inserito l’annuncio cristiano, un clima che perdeva sempre più la dimensione soprannaturale per acquisire una comune prassi ecclesiale dai lineamenti sempre più umani e sociali. Il mondo era entrato nella Chiesa con le sue idee fuorvianti ed era quello il tempo della rivoluzione culturale del Sessantotto con le sue stravaganze e bizzarrie “di moda”, che voleva «mandare al macero le tradizioni». 
   La presa di coscienza di ciò che era accaduto e stava accadendo, l’osservare le ferite che venivano inferte con prepotenza alla Chiesa, il verificare la secolarizzazione che, a valanga, investiva gli ambienti cattolici, il prendere atto che lo storicismo e l’antropocentrismo s’impossessavano della figura divina di Cristo e delle Sacre Scritture, travagliarono inesorabilmente i giorni di don Divo Barsotti, che si interrogò sul ruolo che lui doveva assumere… Continuò a favorire, all’interno della sua Comunità, una formazione solida e robusta per non cadere nella trappola del vago senso religioso, infatti: «Bisogna che agisca in tutta la Chiesa senza muovermi dal mio centro. Non debbono essere parole. È necessario che concretamente io partecipi a tutta la vita del mondo senza rifiutarmi, senza escludermi da alcuna attività: che io viva tutta la vita, culturale e religiosa, riformatrice e missionaria – eppure rimanga fisso in Dio». 

   L’atteggiamento di don Divo di fronte al Concilio Vaticano II si sviluppa in tre fasi: le aspettative (prima), l’ascolto di ciò che veniva prodotto (durante), la valutazione dei frutti (dopo).  Risulta di grande importanza, dunque, conoscere il dipanarsi delle sue riflessioni maturate nel corso del tempo e che sono ben evidenziate ed esaminate nei suoi Diari e che padre Tognetti ha studiato in profondità. 
   Don Divo non è un “sospettabile” che odora di tradizionalismo, è un sacerdote che non può essere accusato di “pregiudizi” e preconcetti; egli è un monaco che elaborò e ruminò ipotesi, idee, applicazioni del Concilio Vaticano II, giungendo alle conclusioni che oggi in molti, ormai, vanno ragionando. Ed ecco che i teologi furono da lui considerati i grandi responsabili di ciò che era avvenuto nella Chiesa, nei Seminari, nelle facoltà universitarie:
   «[…] le parole non generano più che nuove parole […]. Il Concilio di Trento ha nutrito la teologia per quattro secoli; del Vaticano II i teologi sembrano già stanchi dopo pochi anni dalla fine».
   Padre Tognetti, che ha vissuto a fianco di don Divo fin dalla giovinezza, potendo oggi testimoniare con vivezza un’esistenza imbevuta alla fonte del silenzio immerso nel trascendente, analizza come l’atteggiamento del fondatore della Comunità dei Figli di Dio si sia andato depurando sempre più da ogni semplicistico ottimismo  e, di contro, si sia fatto sempre più critico nei confronti dei cambiamenti introdotti nella Chiesa dal Concilio del XX secolo. Il suo fu un vero e proprio travaglio, sia intellettuale che spirituale. E proprio perché immenso fu il suo amore per la Chiesa più accesa e più detonante fu la sua angoscia.
   Nelle pagine del Diario del 1967, quando erano trascorsi appena due anni dalla chiusura dell’Assise, egli esternò la sua critica sui documenti conciliari, che gli «sembrano attestare una sicurezza tutta umana più che una fermezza di fede» e reagì con forza «contro la facile ubriacatura dei teologi acclamati al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, un’orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico». 
   Molti teologi, infatti, si sentirono capicannonieri e l’eco della loro esultanza fu raccolta dall’editoria come dalla pubblicistica in genere, dalle facoltà teologiche come dai simposi.
   Don Divo, invece, come altri messi a tacere o isolati in un angolo, perché non portassero “scandalo” e non disturbassero la rivoluzione in corso, andava allarmandosi sempre più, non riconoscendo nella nuova impronta ecclesiale gli insegnamenti della Chiesa di sempre. Si dimostrò infastidito dalla continua esaltazione del Concilio, una manifestazione che gli pareva essere frutto di «cattiva coscienza» da parte di chi lo difendeva ad oltranza, ma: «Se è opera di Dio, non ha bisogno di essere difeso». Era una volontà prepotente di chi rinfacciava alla Curia romana la propria vittoria e intanto per Barsotti - che guidò, su richiesta esplicita di Paolo VI,  gli esercizi spirituali alla stessa Curia, nella settimana dopo il mercoledì delle Ceneri del 1970 - l’Assise «forse perché ha voluto dir troppo, non ha detto molto».

   Denunciò la precisa volontà dei Padri conciliari e dei Vescovi del postconcilio di non condannare l’errore, con la pretesa di rinnovare la Chiesa «quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto». Parole che fanno rabbrividire, ma che testimoniano inequivocabilmente che davvero successe qualcosa di grave fra il 1962 e il 1965: far finta di niente equivarrebbe a non voler risolvere l’evidente crisi della Chiesa e della Fede ad essa correlata
   Barsotti, del quale l’autore della biografia ripercorre con acume tutti i passi della sua ricca esistenza, non rimase in silenzio, osservava e parlava, giungendo ad affermare cose che la Tradizione continua a ribadire, ovvero che nel Vaticano II «non sono stati impediti gli equivoci, l’ambiguità e soprattutto non è stata impedita la presunzione, non l’ambizione e il risentimento, non la superficialità e la volontà di un rinnovamento che voleva essere uno scardinamento, sradicamento della tradizione dogmatica, una diminuzione della tradizione spirituale».
   Non acquisì posizioni di rottura nei confronti del Magistero, ma esplicita e manifesta era la sua criticità e la sua grande sofferenza che riusciva a sublimare nella contemplazione e nel ritiro di una vita monastica assorta in Dio, nella insistente ricerca delle virtù della perfezione cristiana. Ed ecco l’inseguimento della santità, amata e desiderata: senza la santità, per questo monaco tuffato nello Spirito, che meditava scrivendo e scrivendo meditava, la religiosità “moderna” era fatta soltanto di parole vuote e vane, come chiaramente espresse nella sua opera Battesimo di fuoco: «Sono perplesso nei riguardi del Concilio medesimo: la pletora di documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. […] Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò loro quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo. […] Tutto il resto è retorica. Soltanto la santità salva la Chiesa. E i santi dove sono?».